Esistenzialisti a confronto

«La speranza è data a ciascuno di noi, perché la doni a chi l’abbia perduta». W.Benjamin

Il Novecento ha sancito la nascita e il tramonto di tante cose: due Guerre Mondiali, il tracollo di alcuni sistemi monarchici, i Totalitarismi (Hannah Arendt), l’Olocausto, l’energia atomica. Nella letteratura l’avvento della Psicoanalisi ha modificato l’atto dello scrivere. La Psicologia del Profondo ha inciso il tessuto di tutte le arti mutandone i contenuti. Negli anni venti e trenta la speculazione filosofica portò alla nascita dell’Esistenzialismo.

In Europa Martin Heidegger, Jean Paul Sartre e Albert Camus rappresentano gli alfieri di quella che si presentò come una nuova corrente di pensiero.

In musica l’esistenzialismo assunse il volto espressivo e il corpo esile di Edith Piaf, simbolo femminile della canzone esistenzialista. Conquistò il successo internazionale con “La vie en rose” e “L’Hymne a l’amour” (dedicata al compagno scomparso tragicamente). La sua voce scura, malinconica e potente, le tematiche spesso romantiche e la sua stessa esistenza appassionata hanno fatto di lei una delle massime figure dello spettacolo europeo del secondo dopoguerra.

In ambito letterario, grazie ai francesi, nacquero due gemme: “La nausea” e “La peste“. «…La scienza è rozza, la vita è sottile ed è per correggere questa distanza che la letteratura ci interessa». Roland Barthes a proposito dell’Esistenzialismo in letteratura.

Prendendo le mosse da questa asserzione di Barthes mi accingo ad entrare nei due romanzi che ho poc’anzi citato. L’augusta genitrice dell’Esistenzialismo novecentesco, in realtà, è nata nel ‘600. La filosofia di Blaise Pascal, passando attraverso i romanzi di Dostoevskij, è il basamento primigenio di quel sommovimento culturale che avrà luogo tre secoli dopo. Ci sono libri che, in poche pagine, sulla vita e sulla morte, sul loro inesplicabile senso dicono più di interi trattati filosofici e teologici ed è qui l’esempio dei due romanzi presi in esame.

Ne “La peste” Orano è una città mercantile aggredita dal morbo assassino e isolata dal resto del mondo, dove la malattia passa al vaglio ogni individuo con la sua miseria, il suo coraggio, il suo eroismo e la sua viltà. Nessuno riesce nell’intento di arrestare la pandemia e la città diventa il palcoscenico di un’umanità al limite tra disgregazione e solidarietà. Camus ha volutamente sancito la fine senza scampo di una comunità proprio per mettere dinanzi agli occhi dei lettori le iridescenze dell’animo umano: indifferenza, panico, egoismo, altruismo, ardimento in una situazione dove a tiranneggiare è la legge della sopravvivenza. Una vera e propria rivolta contro una condizione tremenda e incomprensibile.
L’umanità si divide tra coloro che soccorrono e coloro che esercitano violenze per la propria salvezza personale. Dare una forma intelligibile alle “akousmata“, dal greco ‘cose ascoltate’, ‘voci del di dentro’. Uno degli imperativi della letteratura è proprio questo: dare un nome alle cose, soprattutto alle sensazioni più sottili, ai sentimenti più grandi che necessitano di un alfabeto “speciale”, quelli che stanno sempre dietro, che arrivano dopo un po’ e rischiano di non essere percepiti.

La nausea” ha dato ragione a quanto affermava il suo autore Jean-Paul Sartre, riflettendo su un romanzo dell’americano Faulkner: «I buoni romanzi finiscono per somigliare moltissimo ai fenomeni naturali; si dimentica il loro autore, li si accetta come pietre o alberi, perché ci sono, perché esistono». Sono passati ottant’anni dalla prima pubblicazione (1938), lasso di tempo che per un uomo può valere una vita. Ciononostante nulla è così vecchio in questo romanzo trasgressivo e ricchissimo, il quale restituisce il disagio della pace agonizzante in Francia, in Europa e nel mondo alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Come tutte le grandi menti anche loro erano capaci di stare per ore da soli, contemplando il vuoto apparente. In quello iato di assenze palpita un universo interiore fatto di riverberi, sogni di sogni.

Sartre e Camus non sono mai stati amici, si conoscevano meglio attraverso la rispettiva fama di pensatori e scrittori. Entrambi hanno dato forma letteraria alle logiche della sopraffazione, alla tirannia sovente esercitata da chi detiene un potere. I loro romanzi sono grandi metafore di questa degenerazione dell’uomo. Sartre era più ideologizzato mentre Camus palesava un atteggiamento mite, da pensatore distaccato. Proprio la divaricazione ideologica fu la causa della loro insanabile rottura.

Nelle loro opere letterarie la presenza della filosofia è legata all’analisi dell’essere, che emerge come un fiume carsico, per poi ricollocarsi nelle pieghe della trama romanzesca. Un passo de “La nausea” ne è l’emblema: «…Esistere è esser lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno credo che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso».
La consapevolezza di tutto ciò ingenera il malessere diffuso che Sartre indica come ‘nausea’: un fastidio tangibile, fisico. È la consapevolezza di essere delle presenze che un giorno non saranno più: è l’inanità di permanenze transeunti.

 

Giuseppe Cetorelli

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