Emanuele Severino e il ricordo degli eterni

La totalità delle esperienze, delle conoscenze e dei sentimenti è destinata a riapparire in ognuno di noi

Per chi come me ha studiato filosofia, la dipartita di Emanuele Severino si ripercuote come una severa scudisciata all’anima. La morte, approfondita da studioso, lo ha ghermito nonagenario ancora immerso nei pensieri alti, nell’alta filosofia di cui era capace.
L’eredità che lascia ai suoi “discepoli” è immensa: il fare filosofia in grande stile sulle orme degli antichi greci, il dono di non essere mai banale, la facoltà diluviale di eprimere concetti che mal si prestavano ad essere criticati, per via della loro insita perfezione geometrica.
Tutto questo e molto altro fa di Severino uno dei maggiori pensatori della contemporaneità, un maestro a cui la cultura deve molto.
Allievo di Gustavo Bontadini egli si definiva parmenideo, ossia un pensatore che ha come basamento l’Essere nelle sue declinazioni più estese e profonde.
L’ontologia è l’inizio di ogni cosa, lo studio dell’Essere in quanto tale al di là delle sue determinazioni particolari è la fonte dalla quale sgorgano i filoni di pensiero che conducono alla concezione degli eterni come costanti nel tempo.
Gli eterni, la ragione primigenia della sua attività di studioso, si nascondono alla nostra vista ma ci sono.
L’invisibilità materiale non ha nulla a che fare con la presenza reale.
La bellezza di contraddire quel flusso che vede la nascita come qualcosa che esce dal Nulla e la morte come qualcosa che ci riproietta nel Nulla. Sulla base dell’asserto che “il Nulla” non può generare gli enti, l’ente o “essente” deve avere una causa originaria.
Non credeva in Dio, senza escluderlo riconduceva “il tutto”, physis in greco, al flusso costante e generante degli eterni, i quali hanno agio di palesarsi con la nascita e di scomparire con la morte.
Il pensiero severiniano esclude la morte come fine ultima di tutte le cose, non riconosce alla morte il potere di nullificare ciò che è eterno. La ritiene un passaggio transeunte, un momentaneo assentarsi dell’eterno.
Il “ti èsti” dell’uomo, la sua essenza, è l’eternità.
Dunque l’uomo è destinato a qualcosa di più grande di qualsivoglia reincarnazione, del paradiso cristiano e della resurrezione.
In sostanza l’educazione a morire, una delle risposte alla domanda che cos’è la filosofia, è vivere senza l’angoscia della morte, giacché essa è un ritorno al flusso costante degli eterni.

Nel 1969 l’originalità della sua posizione, scontrandosi con la dottrina ufficiale della Chiesa, gli cagiona l’abbandono della cattedra all’Università Cattolica.
Per Severino la regalità dell’uomo consiste nell’essere, l’apparire della verità assoluta, l’”Aletheia” (ἀλήθεια) dei greci e la “Veritas” dei latini si identifica nella grandezza interiore dell’uomo e di conseguenza nel destino superiore a cui gli uomini sono assegnati.
È proprio qui che emerge il vincolo parmenideo, il presocratico afferma che: «L’essere non era né sarà ma è nel presente tutto insieme, uno, continuo» (Fr.,8 Diels).
L’accento posto sulla grandezza dell’umano è testimoniato dall’avvento della Filosofia, «La nascita della filosofia è uno degli eventi più decisivi nella storia dell’uomo», Severino ne “La filosofia dai greci al nostro tempo”.
Ebbi già modo di scrivere nel saggio “La cultura nasce dalla paura” che occorre voltarci e gettare lo sguardo lontano, laddove non osa più nessuno guardare […]. Duemilaseicento anni fa nasceva la Filosofia, ciò che caratterizza la nascita di quella esperienza di pensiero, è il tentativo più audace fatto sino ad allora di prendere posizione rispetto alla finitudine di tutto ciò che è vivo. Aggiungerei ora, di tutto ciò che è eterno.
Chi identifica la morte con la fine assoluta, ignora il cammino infinito dinanzi al quale ci pone.

Gli eterni di Severino e, prima ancora del tedesco Fichte, sono destinati a farsi avanti in volumi sempre più ampi.
Dunque è questa l’eternità laica che si apre dinanzi ai nostri occhi dopo la morte. Anche se non la vediamo è presente: «Le cose che non si vedono – commenta Tommaso d’Acquino, il massimo dottore della Chiesa – non sono semplicemente quelle invisibili agli occhi del corpo, ma anche quelle invisibili agli occhi della mente, quelle cioè che la mente dell’uomo, con le sue sole forze, fatica a raggiungere».
La fine (“Thanatos“) è soltanto un sapere non una esperienza, finché palpita la vita l’immobilità dell’assenza di vita non c’è, non ci riguarda.
La totalità delle esperienze, delle conoscenze e dei sentimenti è destinata a riapparire in ognuno di noi.

Da ultimo quello che più colpisce dell’opera di Severino è la certezza apodittica che mostra di avere nelle idee che espone, nei suoi scritti la virtù teologale della speranza non trova spazio. Ed è proprio sulla base di queste certezze che arriva a definire la gioia come il toglimento di ogni contraddizione.
Solo dove non vi è contraddizione può esistere la gioia a cui l’uomo tanto anela.

Giuseppe Cetorelli

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