Effimera Live: Ivan Talarico [Live Report 08/2020]

Un live set incentrato sul continuo paradosso ironico dell'incomunicabilità umana, in un luogo che viceversa ha fatto della condivisione la sua cifra etica e stilistica

Anche stasera il cortile del Fusolab mi farà compagnia con la consueta calorosità: i ragazzi della Fucina Alessandrina, del Poppyficio e di Radio Rebel, insieme a quali anche noi di Uki stiamo portando avanti questa “resistenza” musicale, mi accolgono come uno di casa. Ma è un trattamento che non è riservato solo a me: qui tutti sono di casa, sin dal primo istante. Effimera ha creato un’alchimia vincente, è riuscita a connettere persone e sensibilità eterogenee proprio grazie alla sua umanità spontanea, al suo fortissimo senso di socialità: due boccate di ossigeno che stanno rendendo questo panorama sempre più vitale e in fermento. L’ospite di questa sera è uno di quelli che non mi resta difficile definire come artista poliedrico: Ivan Talarico. Prima del concerto gli chiedo se possiamo scambiare due chiacchiere sulla sua attività e sul suo modo di scrivere e di vivere la musica.

  • Ciao Ivan, innanzitutto complimenti per il tuo lavoro e grazie per aver accettato di fare due chiacchiere insieme. Personalmente, conoscendoti per lo più come attore, sono molto curioso di vederti questa sera in vesti diverse: ci vuoi raccontare un po’ come nasce l’Ivan musicista?

L’Ivan musicista è nato molto prima dell’Ivan teatrale: ho iniziato a suonare chitarra e pianoforte tra i nove e i dodici anni e da lì ho sempre ascoltato molta musica. Ma prima ancora di imparare a suonare bene uno di questi due strumenti, scrivevo già delle piccole melodie e canzonette: da subito ho avuto una produzione quasi infinita di canzoni che però erano, almeno fino ai quattordici anni, terribili e irreplicabili. Poi, una volta arrivato a Roma, mi sono concentrato di più sulla musica strumentale e sulle colonne sonore. Allo stesso tempo, il teatro (un’esperienza che ho condiviso con Luca Ruocco, col quale sono partito insieme dalla Calabria) mi ha completamente coinvolto, lasciando così poco spazio alla musica. Nel 2009, per motivi abbastanza strani, ho ricominciato a scrivere canzoni con tutt’altro approccio: in quel periodo avevo l’intenzione di travasare alcuni elementi della scrittura automatica nella musica, e questo mi ha permesso di sperimentare un modo di scrivere del tutto libero, svincolato da certe tipologie di strutture. Quindi, nonostante la stranezza di quella produzione, sono ritornato alla canzone da una porta laterale e piano piano ci sto ancora rientrando, perché in qualche modo c’è ancora un’impostazione un po’ teatrale di quello che faccio che per alcuni versi sento come un pregio ma per altri anche limitante.

  • Infatti ascoltando le tue canzoni si percepisce una certa discendenza dalla stagione del teatro-canzone: che rapporto hai con artisti come Gaber o Iannacci? È anche grazie a loro che dal teatro ti sei riavvicinato pian piano alla musica?

Purtroppo non è stata la motivazione per la quale sono tornato alla musica. Gaber l’ho ascoltato molto negli ultimi anni delle scuole superiori e poi c’è stato un periodo in cui non l’ho frequentato più di tanto. Iannacci, invece, l’ho scoperto in profondità più tardi. Però ogni volta che li ascolto mi sento profondamente toccato nel profondo, soprattutto con Iannacci: lo sento molto affine per alcuni tempi, per alcune modalità di portare il dramma nella comicità.

  • A te piace molto giocare con le freddure linguistiche o con un’impostazione vicina a quella del linguaggio dell’assurdo e riesci a creare dei panorami semantici che, letti in superficie, possono sembrare totalmente stranianti o no-sense, ma se si va in profondità aprono degli orizzonti molto interessanti. Come giochi, quindi, con e sulla parola che diventa un qualcosa che sta a metà strada tra un tic linguistico e un grimaldello che scardina?

Su questo ti devo dire che mi sento molto in linea con una frase di Bergonzoni che ho letto tempo fa secondo cui non era tanto lui a giocare con le parole quanto piuttosto era lui ad essere giocato dalle parole. Nel mio caso questa cosa diventa un po’ un’acquisizione di alcuni meccanismi. Se considero che tra i miei artisti preferiti c’è l’ultimo Battisti, il Battisti dei testi di Panella, vedo che è un qualcosa che mi ha aperto le porte verso il dadaismo, il surrealismo e il teatro dell’assurdo. Perciò il mio rapporto col gioco di parole è quello di esserne quasi vittima: ogni parola per me è multiforme, ne vedo derivazioni, spostamenti, possibilità e questo mi porta nella scrittura ad usare spesso le connessioni “spontanee” che si generano tra le parole.

  • A proposito delle connessioni, nella tua scrittura c’è anche un legame molto forte tra comicità e drammaticità, un legame che le parole riescono a rinforzare o ad esorcizzare seguendo un po’ il filo dell’ironia.

Ecco, prima ero una persona che scriveva “dritto per dritto” e forse in qualche modo ritornerò a farlo per una specie di giro. Però aver trovato lo slittamento dell’ironia, oltre ad essere un riconoscimento di un modo di espressione che mi è sempre appartenuto, è stato anche un modo di vedere le cose che non fosse unicamente vettoriale, ma che avesse delle sfumature anche divertenti o leggere. Ecco, questa cosa mi ha permesso di emanciparmi un po’ dal dramma della scrittura “pesante”: ho tante cose non pubblicate scritte con questa attitudine, però sono cose incomplete. L’ironia, invece, mi permette di concludere e soprattutto di trovare un modo per sentirmi a mio agio in una comunicazione con il pubblico: si mostra il fianco debole ma allo stesso tempo ci si ride su con le persone.

  • Quindi l’ironia come connessione, un qualcosa che ci fa sentire parte di un disagio comune?

Sì, crea una connessione forte, anche se devo dirti che per me l’ironia e la comicità sono due cose incidentali, come se fosse un modo per salvarmi dal dramma. Ecco, i contenuti delle mie canzoni spesso vanno verso contenuti come la morte, la spersonalizzazione, l’incomunicabilità. Per esempio, questa sera suonerò una canzone intitolata “Mi dici”: se si legge il testo così com’è, ci si rende conto che si parla di un dramma molto forte, ovvero quello di due persone che non riescono più a parlare e a comunicare. Però se questo contenuto non viene slegato dalla musica o dall’attitudine di taglio ironico ti rendi conto che può essere anche comico: è il meccanismo di espressione che la rende tale.

  • Quindi, quasi paradossalmente, il gioco di parole può servire anche per rompere il dramma dell’incomunicabilità?

Sì, è un meccanismo che ho utilizzato spesso: portare all’estremo, tramite il gioco di parole, l’incomunicabilità, arrivare dunque ad un punto in cui non serve più capirsi. A quel punto entra in campo l’onomatopea: penso, per fare un esempio, a “Carote d’amore”. Lì, nella prima parte, il gioco di parole sottolinea un primo momento di incomunicabilità tra due persone, poi il tutto si risolve in una serie di onomatopee in cui ormai non si capisce più quello che lei dice a lui e lui non sa più cosa dire. Questa è un po’ l’idea che sta dietro anche alla perdita di senso: da una parte lotto sempre contro un certo sfondo di luogo comune, ma dall’altra parte ricerco un minimo di senso che mi permetta di non lasciare troppo in aria le cose che scrivo.

  • Penso al titolo del tuo disco, “Un elefante nella stanza”: anche qui, la ripresa di una parte di un modo di dire può rappresentare una situazione comunicativa, una situazione nella quale si nasconde o si fa finta di ignorare un senso che è palese e sotto gli occhi di tutti (o almeno sotto gli occhi di due persone che stanno comunicando). All’interno di questo lavoro si possono trovare delle canzoni composte, a livello testuale, completamente da onomatopee.

Sì, si tratta proprio di canzoni onomatopeiche. Ti racconto un piccolo aneddoto: dopo una serata, mi sono ritrovato in un bar col mio amico e collega Claudio Morici e ad un certo punto gli dissi che mi sarebbe piaciuto fare tanto una canzone, lì sul momento e senza motivo, composta da soli suoni. Lui, molto semplicemente, mi disse: “Va bene, falla!”. Da lì ho iniziato a sviluppare queste canzoni onomatopeiche (che poi, senza saperlo, si ricollegavano anche a Dalla e ad altre cose analoghe). Però mi sono arrivate così, perché mi piaceva l’idea di dire senza dire, di giocare coi suoni.

  • Rimanendo sempre su “Un elefante nella stanza”, al di là dei vari giochi di parole, è un lavoro che dice tanto: ci vuoi raccontare come è nato?

È stato un lavoro molto frammentario, nel senso che le canzoni sono state scritte nell’arco di molti anni: la prima è del 2014 e l’ultima del 2018. Anche in questo caso, avevo una visione un po’ disomogenea e mi è stato fondamentale il supporto di Filippo Gatti, che ha curato la produzione artistica. È riuscito, lavorando insieme sulla scaletta e soprattutto veicolando le idee che avevo, a permettermi di creare un minimo di discorso sui pezzi.

  • Pur essendo pezzi eterogenei, c’è un filo conduttore che li lega?

Direi che il filo conduttore più evidente può essere la mia voce e quel taglio ironico di cui si parlava sopra. Poi, come se fosse un movimento di sottotraccia, c’è anche un po’ la volontà di ribaltare alcuni aspetti del luogo comune. Avendo frequentato molto il teatro dell’assurdo, per il quale uno dei principali cardini è proprio quello di distruggere il luogo comune, posso dire che mi è rimasta questa attitudine e ho cercato di riversala come potevo dentro queste canzoni. Però, ecco, dal teatro dell’assurdo, questa pratica mi diventa un’esigenza reale di sguardo sul mondo in più modi, se non altro perché uno dei miei obiettivi è quello di aprire sempre più finestre sulla percezione della realtà, perché secondo me quella che viene definita come realtà è una piccola parte a cui noi siamo abituati, e spesso la scrittura e la canzone tendono ad appoggiarsi ad un qualcosa di rassicurante. Ecco, invece l’obiettivo vorrei che fosse anche quello di scuotere, di portare da un’altra parte chi ascolta (ma anche me).

  • Per completare un po’ il discorso sul tuo essere artista, ci vuoi dire qualcosa sul tuo percorso da poeta?

Devo ammettere che quando dico di scrivere poesie o di essere poeta mi viene sempre in mente l’immagine della recita del bambino: il campo della poesia è molto difficile, perciò o la sai scrivere o diventa a tutti gli effetti impraticabile perché è talmente delicata – per quanto sia varia nelle forme – che è un campo minato. Ma al di là di questo, le poesie per me sono dei piccoli momenti di riflessione, piccoli squarci che aprono il presente e attraverso i quali guardo verso un’altra direzione o un’altra possibilità.


Mi accomodo sugli spalti del Fusolab e nel frattempo vedo che il cortile si è lentamente riempito. Ne approfitto per prendere un drink e lascio che la chiacchierata scambiata poco fa sedimenti prima dell’inizio del concerto.
Poco dopo si abbassano le luci ed è come se si aprisse un invisibile sipario sul palco. “Come tutti voi avrete immaginato dal titolo, questo è uno spettacolo che parlerà di Medio Oriente. Tratta di tutte quelle etnie che si sono spostate dal confine dell’ex Persia, oggi Iran, ma lo fa senza scadere troppo nel dramma, regalandosi momenti di leggerezza”: inizia così, in un modo totalmente straniante, il concerto di stasera e mentre una leggera risata si disegna sulle labbra ho la sensazione che sarà una serata piacevolmente fuori dagli schemi.
Il contatto con il pubblico si fa subito concreto ed evidente e Talarico, con un coup de théâtre giocato sulla più classica delle domande, un “Come va? Come state?”, sfonda una virtuale quarta parete. Si respira un clima di briosa stand up comedy, come se Talarico cercasse di costruire momento per momento quelle che saranno le canzoni del concerto: è così che un dialogo serrato col pubblico porta il primo brano, un brano che paradossalmente parla proprio dell’impossibilità di un dialogo. “Mi dici” è un sali e scendi dinamico tra le incomprensioni del gioco di coppia, tra un dire che porta sempre altrove, tra le parole che si comprendono sempre a metà e che, dopo essere esplose in un diluvio di cose pensate e mai dette, lasciano dietro di loro i resti di una frizzante quanto drammatica onomatopea. In un modo o nell’altro ci sentiamo tutti coinvolti perché il lato comico che sta dietro il dramma di due persone che smettono di parlare ci riguarda, nonostante tutto.
Dopo aver “esaurito la funzione epica col primo brano, quella divertente col secondo… adesso possiamo andare verso il dramma, ma ci fermiamo un attimo prima”, per la precisione ad una canzone di quasi amore, nella quale l’io che parla viene appaiato ad un tu che inventa, chiudendo ancora una volta il circuito dell’incomunicabilità e della spersonalizzazione. Lascia attoniti il modo in cui Talarico riesce ad accarezzare con una leggerezza ariosa dei fardelli che molto spesso prendono la forma di sbarre di prigione o di pesi insostenibili, così come sottolineano i nostri sorrisi in penombra sulle note di “Torta di male“, un vero e proprio inno dello star male (con un tiro brioso à la Giorgio Gaber) giocato su paure e ansie sottili, a tratti surreali, ma che ci fanno sentire sempre indifesi di fronte a ciò che il mondo ci pone davanti.
Il contatto col pubblico diventa sempre più stretto, fino ad arrivare a mettere ai voti la scelta dei prossimi due brani (“dei brani dal taglio lungimirante”) da eseguire: vince “Timo e timore” e Talarico, con la sua consueta ironia dissacrante, ci accompagna di nuovo tra le pieghe dell’apprensione quotidiana, nella fattispecie quella relativa all’insicurezza economica. Anche qui, la leggerezza con la quale vengono toccati delle paure e dei disagi concreti lascia quasi attoniti: nel sorriso – noi e lui – troviamo l’esorcismo, nel paradosso la chiave per rendere meno opprimente la realtà nuda e cruda. Tuttavia, è una leggerezza che fertilizza il pensiero: dall’affanno quotidiano verso le cose materiali il brano ci conduce fino ad un punto di riflessione che porta a chiedersi come sarebbe il mondo senza di noi, come a voler sottolineare che le paure materiali sono talvolta una costruzione che diverge dal flusso naturale delle cose.
Il concerto va avanti e Talarico mostra tutto il suo talento poliedrico: una poesia sulle effimere – farfalle che vivono un giorno solo – ci invita ancora una volta ad accarezzare con leggerezza la fragilità della vita, quelle stesse fragilità cantate poco dopo con “Eppure noi viviamo ancora“, un brano che per un momento mette da parte il taglio ironico per entrare più direttamente in un intimismo delicato. L’effetto è quello di uno strano cortocircuito: dopo aver riso insieme dei lati tragicomici della vita, adesso ognuno di noi è ripiegato nel suo pensiero e lascia sedimentare quanto ascoltato. Si chiude così la prima parte del concerto.
Adesso Talarico passa al pianoforte e riprende il consueto contatto col pubblico invitandoci a cantare tutti insieme il finale di alcuni versi del brano che sta eseguendo. La ripresa di calorosità, però, non stempera la sensazione che il cambio di strumento ha dato e adesso il concerto sembra declinato di più verso l’intimismo. Rimane il taglio ironico, ma stavolta è meno esplosivo: a tratti l’ironia sembra adagiarsi su una malinconia sottile, come per esempio in “Sgombro” e “Non addormentarti mai” («I sogni nascondono la vita che non sai»: una frase che apre una crepa tra il dentro e il fuori, tra il desiderio e la volontà, tra la non coincidenza di vita reale e vita immaginata).
La densità del momento viene nuovamente stemperata dalla ricerca di contatto col pubblico: riportando in superficie i ricordi scolastici sulle peregrinazioni di Ulisse, si ride insieme sulle tempistiche del viaggio o sui fraintendimenti tra i due sposi e ci si prepara così all’ascolto de “È tutta colpa dei proci“, un brano giocato sul punto di vista di Penelope nell’attesa del ritorno di Ulisse ma che, allo stesso tempo, sembra parli anche di altro. Con la chiusura del concerto arriva anche il momento del bis, anche questo condotto in maniera particolare perché, più di ogni altro momento della serata, si propone di coinvolgere direttamente il pubblico con una chiamata diretta sul palco. Ma, prima di questo finale straordinario, c’è spazio per “Carote d’amore“, il brano che sta facendo viaggiare il nome di Ivan Talarico anche al di fuori del contesto romano.
Ultimata la canzone, Talarico vuole sul palco “due congiunti” e improvvisa un brano chiedendo loro di raccontare cosa avevano fatto durante la giornata. Lo scambio di battute è divertente e scanzonato e ne esce un pezzo giocato nuovamente sul paradosso e sull’incomunicabilità, ma alla fine “l’amore vince sempre quando non ci sono alternative”. Le note e la sottile malinconia de “L’elefante” chiudono il concerto lasciandoci una sensazione che è “tenera, amara e bellissima”, come quella provata da un io che prova a comunicare con un tu quando l’amore finisce, quando si cerca di ricucire facendo cambiare forma a quello che era un sentimento assoluto adesso diventato ingombrante, vischioso, bugiardo. Adesso il sentimento del contrario non fa più sorridere, ma ci lascia con una sensazione dolceamara che però ci fa ricordare che così è la vita: un qualcosa di dolce o di paradossale, di nostalgico o di strambo, di comico o di tragico, di crudele ma anche di tenero.

Mario Cianfoni

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