Denunce letterarie

Esempi di sensibilità narrativa come denuncia delle aberrazioni dispotiche

I giullari erano gli attori del popolo, facevano un teatro giornale contro la cultura ufficiale, contro i potenti, contro il governo politico. I lazzi e gli sberleffi atteggiavano al riso i volti degli aristocratici, i loro stessi difetti, il malgoverno e le angherie venivano esposte attraverso la fola giullaresca, l’arte della denuncia letteraria

Chiediamo molte cose ai libri. Qualche volta chiediamo loro quiete, profondità, risposte, domandiamo loro il senso di questa navigazione che chiamiamo vita: la cui essenza è così sfuggente e rara, difficile da trovare in Terra. Se volgiamo lo sguardo indietro ci accorgiamo che l’esistenza degli uomini è organizzata da altri uomini, tali e quali a noi. Ne più intelligenti, ne più stupidi, forse più ambiziosi e mossi dal desiderio di stare al di sopra. Uomini che recano addosso la propensione al dominio.
La vessazione dei dominati è sempre figlia della cecità e dell’egoismo dei dominanti, Jean-Jacques Rousseau scriveva nel “Contratto Sociale“: «L’uomo è nato libero e ovunque è in catene. Chi si crede padrone degli altri è nondimeno più schiavo di loro…».

È partendo da quest’ultima frase del grande filosofo ginevrino che introduco gli argomenti del saggio presente, laddove si discetta di forze dominanti e si denunciano le aberrazioni di un governo totalitario e di un dispotismo non meno liberticida.

Il romanzo che ha dato celebrità a George Orwell è “La fattoria degli animali” (“Animal Farm”), certamente un testo geniale che si inserisce nella tradizione dei giullari medievali, scritto tra il 1943 e il 1944 aggredisce sfrontatamente lo stalinismo. Attraverso un grande affresco metaforico vi si racconta come gli animali di una fattoria si ribellino al proprietario e tentino di creare un nuovo ordine fondato su un concetto utopistico di uguaglianza. Una favola in chiave parodistica della riuscita iniziale, del graduale tradimento e del definitivo fallimento della rivoluzione sovietica. Il sommovimento che portò i bolscevichi al potere fu caratterizzato da un ideale altissimo dettato dalla filosofia di Karl Marx; il grande pensatore tedesco immaginava un mondo dove la giustizia sociale potesse attecchire durevolmente. Il nobile intento di gettare il seme dell’uguaglianza tra le genti si è rivelato, come viene narrato nella parodia orwelliana, un insuccesso, un’utopia tinta di sangue e brutalità. L’applicazione dello scopo prometeico di Marx non andò a buon fine, portare la giustizia piena e assoluta in questo mondo si rivelò un’impresa di gran lunga superiore alle possibilità umane. Per denunciare questo Orwell prese in prestito il mondo animale, si tratta di bestie domestiche e dunque vicine all’immaginario collettivo. Un fattore viene cacciato e un pugno di animali prende ad esercitare le funzioni “dell’essere bipede”, esasperati dalla frusta del padrone si ribellano e combattono affinché la fattoria si trasformi in una società giusta, senza sfruttati e senza sfruttatori. Nel corso degli eventi però emerge una nuova classe di burocrati, i maiali, che con la loro astuzia, la loro cupidigia e il loro individualismo si impongono in modo prepotente e tirannico sugli altri animali più docili e semplici d’animo. Gli elevati ideali di eguaglianza e di fraternità tra gli animali vengono traditi, l’iniziale promessa di felicità viene elusa e tutto diventa un incubo. Sotto l’oppressione di Napoleon (alter ego di Stalin), il grosso maiale che riesce a poco a poco ad accentrare in sé le leve del potere e ad appropriarsi degli utili della fattoria, tutti gli altri animali finiscono per conoscere gli stessi maltrattamenti e le medesime privazioni di prima. Il climax che porterà a questo comincia con la subdola inosservanza delle leggi che gli stessi maiali si diedero e imposero. I sette comandamenti iniziali si ridurranno ad un perentorio: “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri…”. Napoleon diverrà una divinità intoccabile come il signor Jones, proprietario della fattoria padronale. Ormai tra loro non c’è più alcuna differenza, i salvatori si trasformano in carnefici e tutto si palesa ingannevole e vano.
L’amara conclusione è la stessa che preconizzò Platone, venticinque secoli fa, nel “Protagora” (dialogo): «La giustizia se ne sta solo presso dio e in questo mondo possiamo auspicare, nella migliore delle ipotesi, a una buona applicazione del diritto».

Dunque la letteratura può diventare un modo per combattere e sfidare la storia, per opporvisi strenuamente senza armi da fuoco e corpi contundenti.
«Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava…». Ci troviamo nella capitale portoghese nell’agosto 1938, la solitudine, il sogno, la coscienza di vivere e di scegliere, immersi nella storia. I destini incrociati di due giornalisti e intellettuali alfieri di un pensiero libero che la dittatura di Salazar tenta di soffocare in ogni modo. Antonio Tabucchi, autore del romanzo, ci accompagna in quei luoghi fisici e dell’anima, con la sua sensibilità deliziosa indica i vicoli ciechi e i labirinti entro cui gli uomini di dibattono come mosche in una bottiglia. La bottiglia chiusa ermeticamente è un’allegoria che evoca il perimetro angusto nel quale gli individui vengono costretti da ogni sistema dispotico. Tra le brezze dell’Atlantico si assiste da spettatori estasiati all’evoluzione di personaggi indimenticabili. Un Pereira dal cuore malato e dal corpo pesante e Monteiro Rossi, volto giovanile e volitivo, che pagherà il prezzo più salato. Un’opera i cui significati si devono cogliere tra le righe, le atrocità del regime guizzano come folgori improvvise: «…Pereira gli chiese cosa gli era successo e padre Antonio gli disse: ma come, non hai saputo?, hanno massacrato un alentejano sulla sua carretta, ci sono scioperi, qui in città e altrove, ma in che mondo vivi, tu che lavori in un giornale?». L’informazione che si distacca dalla realtà è una delle conseguenze della violenta repressione e del terrore inoculato a poco a poco nelle vene della società. Al menzognero e posticcio “bene” di Stato a cui il regime si appella il “Lisboa” replica pubblicando fatti e notizie scomode sino al sacrificio estremo. L’azione di repressione capillare di qualsiasi forma di dissenso procede inesorabile, intarsiando il tessuto narrativo di punti rosso sangue che silente scorre per incatenare la libertà. Le forze dell’ordine non servono più lo Stato a tutela del popolo, ma servono lo Stato opprimendo gli individui con la loro spietata e tentacolare forza persuasiva.

Denunce letterarie, storie che si fanno amare senza riserve e che continuano a suscitare il fascino e la meraviglia delle opere destinate a durare nel tempo.

Giuseppe Cetorelli

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