Tempo ed eternità. Alcuni sostengono che a ragionare sul tempo si perda tempo. Il fatto che l’esistenza di ciascuno non possa essere concepita al di fuori di esso, dovrebbe essere un fomite per ulteriori approfondimenti
Il tempo è una componente irriducibile e irriproducibile della consapevolezza cosciente, ovvero soggettiva, ma anche una nozione fondamentale, perciò generale, della sua concettualizzazione della realtà fisica –oggettiva.
Questo carattere primario e generale del “tempo” e della sua consapevolezza rende difficile, se non impossibile, definire il concetto di tempo in modo inequivocabile e comprensivo.
Il vocabolario della lingua italiana, lo Zingarelli, definisce il tempo come il trascorrere degli eventi in una successione illimitata di istanti. Appare chiaro come la definizione sia poco esaustiva, laconica e incompleta.
La nozione di tempo abbraccia vari campi del sapere, e risulterebbe difficile attribuire una definizione organica privandoci del contributo indispensabile di discipline come: la filosofia, la logica, la fisica e la psicologia. Si dovrebbe aggiungere che la nozione di tempo svolge un ruolo importante anche nella religione e nella teologia, nella storia generale, nella letteratura, e in qualche misura anche nelle belle arti e nella musica. Stando a quanto abbiamo poc’anzi asserito, sarebbe difficile indicare una disciplina intellettuale che non risenta in qualche modo del problema del tempo o che non contribuisca ad esso. Eppure, nonostante tali sforzi concertati tendenti alla chiarificazione di questo concetto, la natura ultima del tempo rimane avvolta nell’oscurità, come lo era quando sant’Agostino, nelle celebri “Confessioni“, dichiarò: «Che cos’è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede non lo so più!».
Da quando l’uomo divenne consapevole del suo proprio sé in un mondo di costante mutamento e in particolare dei fatti della nascita e della morte, il suo senso del tempo divenne determinante nella sua vita, incidendo sulla valutazione di tutta la sua esperienza.
Questa facoltà del suo senso del tempo dette all’Homo sapiens un vantaggio nella lotta per l’esistenza su tutte le altre specie viventi, benché queste fossero spesso fisicamente più forti e più rapide nell’azione, e gettò quindi le basi della civiltà umana, con tutti i suoi successi tecnologici e scientifici.
Ma la coscienza del tempo ebbe anche l’effetto di impedire all’uomo di vivere, come pare facciano invece gli animali completamente confinati nell’esperienza del presente, e gli conferì un senso profondo di insicurezza e di ansiosa preoccupazione per il futuro.
Il timore causato dall’imponderabilità del futuro, dette la stura a numerosi culti misterici e rituali magici da parte di antichissime civiltà. Per opporsi allo scorrere distruttivo del tempo i primi pitagorici dell’antica Grecia abbracciarono la dottrina della metempsicosi (ripetuta trasmigrazione delle anime), per poi affrontare il problema del tempo in un modo più razionale. I pitagorici definendo il tempo come “la sfera che abbraccia tutto” cioè la sfera celeste, lo collegarono col cielo che con il suo movimento ordinato ne consente la misura perfetta (Aristotele, “Fisica“).
Platone definendo il tempo come “l’immagine mobile dell’eternità” nel “Timeo” intende dire che esso riproduce nel movimento, sotto la forma del periodo dei pianeti, del ciclo costante delle stagioni o delle generazioni viventi, quella immutabilità che è propria dell’essere eterno. La definizione di Aristotele «Il tempo è il numero del movimento secondo il prima e il dopo» è l’espressione perfetta del tempo come ordine misurabile del movimento.
Anche gli Stoici assunsero la concezione aristotelica, e neppure molto diverso è il significato della definizione di Epicuro secondo cui «Il tempo è una proprietà cioè un accompagnamento del movimento».
Le discussioni medievali sulla natura del tempo risentirono fortemente, come del resto l’intera filosofia medievale e scolastica, dell’influenza di Platone e di Aristotele. Le disquisizioni intorno al problema del tempo vertevano sulla sua realtà, sull’unicità e universalità e da ultimo sulla sua continuità. Con sant’Agostino si passò dalla definizione realistica di matrice aristotelica, alla interpretazione idealistica di matrice platonica.
Il filosofo materialista inglese Hobbes definiva il tempo «L’immagine del movimento» in quanto immaginiamo nel movimento il prima e il dopo cioè la successione e riteneva questa definizione in accordo con quella aristotelica.
Cartesio, l’autore del “Discorso sul metodo“, ribadiva che il tempo fosse definibile come “numero del movimento”.
John Locke criticava la connessione del tempo con il movimento ereditata da Aristotele e affermava che il tempo è connesso a qualsiasi specie di ordine costante e ripetibile: «Qualsiasi apparizione periodica e costante o mutamento di idee, che accadesse entro spazi di durata apparentemente equidistanti, e fosse costante ed universalmente osservabile, avrebbe potuto servire a distinguere tra loro intervalli del tempo egualmente bene che quelle di cui si è fatto uso in realtà».
Berkeley per definire il tempo sostituiva l’ordine delle idee all’ordine del movimento: «Se io tento -egli diceva- di costruire una semplice idea del tempo, astraendo dalla successione delle idee nel mio spirito, che fluisce uniformemente ed è partecipata da tutti gli esseri, sono perduto e impigliato in difficoltà inesplicabili».
Questa concezione del tempo fu da Newton posta a fondamento della meccanica: egli distingueva il tempo assoluto e il tempo relativo: «Il tempo assoluto vero fluisce uniformemente e si chiama anche durata. Il tempo relativo apparente e comune è una misura sensibile ed esterna della durata mediante il movimento».
La concezione di Newton fu criticata severamente da Locke, il quale come abbiamo visto sostenne che la nozione di tempo deriva dalla nostra esperienza percettiva di essere consapevoli del passaggio di idee, attraverso la nostra mente contro lo sfondo della coscienza permanente del nostro sé (“Saggio sull’intelletto umano” -1690).
L’oppositore più famoso di Newton sotto questo profilo fu Leibniz che, nel suo famoso carteggio epistolare con Clarke, portavoce di Newton, espose la sua teoria relazionale del tempo. Leibniz fondò la sua confutazione del tempo assoluto sul principio di ragion sufficiente, secondo il quale deve esserci una ragione sufficiente per cui ogni cosa (compresa la volontà di Dio) è così come è e non altrimenti. Quanto all’assunto del tempo assoluto, ragionò, dobbiamo ammettere che Dio avrebbe potuto creare il mondo in un’epoca precedente rispetto a quella in cui lo creò di fatto.
Non sorge nessuna contraddizione se concepiamo il tempo come una relazione fra eventi, ossia il tempo finisce con l’essere semplicemente l’ordine universale della successione (il tempo è l’ordine di esistenza di eventi che non sono simultanei).
Fu in reazione alle critiche rivolte alla concezione Newtoniana dall’empirista Hume che Kant propose nella sua filosofia critica (“Critica della ragion pura” -1781) la tesi della idealità trascendentale del tempo (e dello spazio). Sostenendo che il tempo è una forma o modo dell’intuizione, e quindi una condizione dell’intera nostra esperienza, egli si trovò d’accordo con Newton sulla tesi che il tempo è indipendente dai contenuti della conoscenza sensibile, senza peraltro accettarne l’affermazione che esso abbia una realtà all’esterno della mente dell’individuo. Secondo Kant il tempo non è un concetto empirico, derivato dall’esperienza, dal momento che né la coesistenza né la successione avrebbero mai potuto essere percepite se la rappresentazione del tempo non fosse presupposta come a esse soggiacente a priori.
Il tempo è una rappresentazione necessaria, anteriore a tutte le intuizioni, giacché, quanto ai fenomeni in generale, non possiamo rimuoverne il tempo stesso, anche se siamo capaci di pensare il mondo privo di fenomeni. Né il tempo è discorsivo, nel senso di un concetto generale, poiché tempi diversi sono solo parti di uno e dello stesso tempo. Il tempo deve essere perciò una forma pura di intuizione sensibile, connaturata alla nostra mente in modo tale che noi non possiamo percepire i fenomeni se non come temporali (esattamente come non possiamo non vedere verdi le cose quando portiamo occhiali con lenti verdi).
Questa natura a priori del tempo rende possibile, secondo Kant, attribuire al tempo proprietà o principi (come la continuità, l’omogeneità o la unidimensionalità) senza che ci sia alcuna necessità logica di dedurli dall’esperienza. Per fare dell’ordine temporale dei fenomeni un ordine necessario, Kant poté così fare ricorso al principio di causalità, che è in sé un principio a priori, secondo il quale: «Ogni evento percepibile deve essere considerato come casualmente determinato da un qualche evento percepibile anteriore in accordo con una qualche legge generale». In contrasto con Hume, che riduceva l’ordine causale alla successione temporale, Kant riuscì dunque a ridurre la successione temporale all’ordine causale e a sviluppare quella che di solito è chiamata la teoria causale del tempo, taluni accenni alla quale si trovano, come si è visto, negli scritti di Leibniz.
Fra i postkantiani si staglia la figura di Hegel il quale definisce il tempo come intuizione del movimento o “divenire intuito”, a questa interpretazione aggiunge che «Il tempo è il principio medesimo dell’Io = Io, della pura autocoscienza; ma è quel principio o il semplice concetto ancora nella sua completa esteriorità e astrazione».
Hegel pertanto non identifica il tempo con la coscienza ma con qualche aspetto parziale o astratto della coscienza stessa. Senza questa limitazione, Shelling aveva detto «Il tempo non è se non il senso interno che diviene oggetto per sé». E di regola la concezione del tempo come intuizione del divenire porta con sé la riduzione del tempo stesso alla coscienza.
Si arriva così ad Henri Bergson, filosofo francese, il quale definì il tempo come un flusso continuo su cui si innesta il pensiero dell’uomo.
Martin Heidegger, il filosofo dell’essere, definisce il tempo come struttura della possibilità. Questa è la concezione illustrata da Heidegger nell’opera “Essere e Tempo” (1927), che già nel titolo annuncia l’identità dei due termini. La prima caratteristica di questa concezione è il primato riconosciuto all’avvenire nell’interpretazione del tempo. Heidegger ha interpretato il tempo in termini di possibilità o di progettazione, quando il tempo è autentico (cioè originario e proprio dell’esistenza) esso è «L’avvenire dell’ente a se stesso nel mantenimento della possibilità caratteristica come tale». «Avvenire -dice Heidegger- non significa un ora che non è ancora divenuto attuale e che lo diverrà, ma l’infuturamento per cui l’Esserci perviene a se stesso, in base al suo più proprio poter essere. L’ anticipazione rende l’Esserci autenticamente avveniente sicché l’anticipazione stessa è possibile soltanto perché l’esserci è, in generale, già sempre pervenuto a se stesso». Heidegger introduce la dicotomia fra tempo autentico e tempo inautentico, il primo è quello per cui l’Esserci progetta la propria possibilità privilegiata, il secondo è quello della esistenza banale, in cui il tempo diventa una successione infinita di istanti.
L’impegno metafisico del pensiero di Heidegger è indubbiamente notevole, ciononostante può essere sintetizzato in questa formula: il tempo per Heidegger è concepito come una specie di circolo per cui ciò che si prospetta nell’avvenire è ciò che è già stato; e a sua volta ciò che è già stato è ciò che si prospetta nell’avvenire.
In letteratura Marcel Proust è lo scrittore che maggiormente ha utilizzato il tempo da lui vissuto come materia narrativa; nella monumentale “Recherche…” (“Alla ricerca del tempo perduto“) espone la sua filosofica visione del tempo, un tempo interiore impossibile da misurare con i mezzi convenzionali di cui disponiamo. Per lo scrittore francese la memoria è il veicolo tramite la quale ricapitola la sua esistenza, e il tempo da lui vissuto diventa un riflesso interiore, dove le ore, i giorni e gli anni si rincorrono e si sovrappongono senza posa mostrandoci il volto delle persone conosciute, amate e odiate, attimi di vita eternati dalla memoria.
Giuseppe Cetorelli
"Ma la coscienza del tempo ebbe anche l’effetto di impedire all’uomo di vivere, come pare facciano invece gli animali completamente confinati nell’esperienza del presente, e gli conferì un senso profondo di insicurezza e di ansiosa preoccupazione per il futuro."
..questa cosa mi è illuminante! 🙂
un ordine misurabile del movimento per una paranoia stabile della mente, eheheh..
un'intuizione connaturata alla nostra coscienza, in effetti è vero… è la sopravvivenza della natura in questa nostra dimensione.
interessantissimo compendio…
è tardi, è tardi, è tardi!!!
😀
bellissima e interessantissima lezione sul "tempo"!
grazie Uki e grande il Giuseppe Cetorelli! 😉
prigionieri di Crono!
bell'articolo!