Daniele Celona: intervista esclusiva dalla guerra alla luna

Dal punto d'arrivo del tour invernale al punto di partenza del tour estivo

_MG_4195 È uscito il 16 giugno su iTunes e sui maggiori music stores online, dopo un’anteprima esclusiva su Left, “Dalla Guerra alla Luna – Live @ Diavolo Rosso“, il nuovo Ep di Daniele Celona. Cantautore torinese con origini sarde e siciliane, compositore e produttore artistico, con due album alle spalle
(“Fiori e Demoni” e “Amantide Atlantide“), Celona intreccia la profondità e la complessità dei testi, cuciti ad arte, con un rock incisivo e struggente. Lo abbiamo incontrato sabato 30 luglio al Sottoscala 9, a Latina, poco prima del live all’interno della rassegna Art Garden Fest, organizzata da Hyra live_MG_4404

 

– Quanta distanza c’è tra Daniele Celona e la voce narrante dei tuoi testi?

Ce ne è molta, nel senso che è proprio un lavoro diverso quello del regista rispetto a quello dell’attore, ogni tanto si incrociano, si sovrappongono, però è difficile scrivere sempre completamente vestendo la pelle dei brani. Quindi, a volte anche per proteggersi, anche quando c’è un fondo di autobiografia che in realtà viene negata, il fatto di mettersi come terza parte, e quindi di fare l’operatore o il regista e basta, ti permette di stare dietro e anche di vedere i personaggi con maggiore obiettività. C’è anche un po’ di sadismo in realtà nella mia ricerca e visuale, perché questi poveri personaggi li metto sempre in difficoltà, davanti a un bivio, davanti a un ostacolo e mi diverto a vedere se lo superano o se soccombono. Ed è comunque assimilabile a una ricerca interiore, magari si prende spunto dalla difficoltà di un amico o di una storia letta o di un tuo episodio personale, però bisogna mantenere la distanza. Io credo che a un certo punto si debba farlo anche per sopravvivere, cioè per non è essere sempre così dentro perché comunque è molto dispendioso.

 

– “Dalla guerra alla luna” è il tuo ultimo lavoro, il punto d’arrivo del tour invernale e il punto di partenza del tour estivo. I setti pezzi contenuti all’interno dell’Ep sono le registrazioni del live al Diavolo Rosso. Vuoi raccontarci il perché di questa scelta?

L’idea principale era quella del regalo a chi ci aveva seguito, era un’idea un po’ fumosa e io pensavo di realizzare semplicemente un video di una live session fatta in studio. In realtà anche il tour doveva terminare a fine marzo, poi è uscita questa data del Diavolo Rosso e in contemporanea ci hanno detto che probabilmente avrebbe chiuso dopo quella data o di lì a breve. Quindi abbiamo deciso, scientemente e incoscientemente, di fare una bella festa finale e abbiamo proprio investito, nel senso che abbiamo preso un mixer digitale, abbiamo preso una luciaia per rendere lo spettacolo molto particolare, in qualche modo per fare una degna festa di chiusura di un locale come quello che è sedici anni che è in attività, presi anche un po’ “male” dalle notizie di altri locali che in giro per l’Italia chiudono. Poi è venuto tutto di conseguenza, abbiamo deciso di registrare i brani, di riprendere tutta la giornata, decisi a fare più un report e non un videoclip in senso stretto. E quindi abbiamo fatto quest’operazione che è stata anche molto più dispendiosa di quello che ci aspettavamo, proprio come energia anche fisica, nel senso che poi la post-produzione, mixare tutto quel materiale, è stata un’esperienza nuova ed è stata faticosa, nel senso che ha richiesto anche dell’inventiva: banalmente non avevamo messo i microfoni in sala per riprendere il pubblico, quindi abbiamo recuperato proprio dal video, dalla fotocamera che invece stava dalla parte del pubblico, il suono almeno dell’inizio e della fine dei pezzi. Quindi è andata così. “Mille colori” aveva anche degli applausi spontanei in mezzo che in realtà non si sentono. Però, io son contento comunque del risultato.

 

– E il titolo, invece?

Il titolo, come ho scritto anche nel comunicato stampa, è chiaramente una parafrasi di un titolo di Verne, che è un autore che io ho letto da bambino e l’idea di recuperare un po’ di quell’innocenza infantile nel definire la fine di un percorso di tour, che in realtà ha molto dell’adulto, del cercare di starci dentro, di sopravvivere, di dare il cento per cento ogni serata, mi piaceva e mi aiutava a rendere tutto un po’ più leggero. E dava anche molto bene l’idea del viaggio, che è quello che il tour implica, che è un viaggio interiore e chiaramente anche fatto di chilometri, di stanchezza e di incontri con persone sottopalco, che poi è l’aspetto forse più importante.

 

– Guardando con attenzione ai tuoi testi, si può in qualche modo rintracciare una sorta di dualismo: c’è una dimensione intima e una dimensione sociale, c’è un linguaggio ora ricercato e ora schietto, diretto, colloquiale. Quanto c’è di istintivo in quello che scrivi?

Quella di queste contraddizioni, al di là del fatto che hai centrato benissimo il punto, è assolutamente una volontà e non è neanche così tanto una volontà studiata a tavolino, nel senso che io anche nella vita di tutti i giorni, quando scherzo, accosto a forme desuete un italiano molto grezzo e stupido, mi piace e mi diverte. Farlo nei brani non è così facile. Ad esempio, in “Johannes” ho usato l’escamotage di un personaggio della letteratura, collocato in un tempo più remoto, per permettermi di usare quell’italiano lì e poi accostarlo invece ad un italiano “terra terra”, del “canta come mangi”. Sul fatto dell’istinto, diciamo che tra le varie tecniche di scrittura ce ne è anche una più istintiva in cui letteralmente si “vomita” un testo direttamente, succede raramente a me ormai, però succede. La parte istintiva è relegata più che altro ad un palleggio della parte musicale che comprende sia l’armonia, quindi magari l’accompagnamento di uno strumento, ma anche la linea vocale e in quel momento non è così importante avere delle parole compiute ma è più importante il registro, cioè il gusto che ti dà la parola proprio sul palato e molto spesso sono grida, sono sfoghi. E poi c’è una parte successiva di lavoro che è fatto sia reinventando o inventando un testo, che a quella linea si sposa, sia attingendo anche a un serbatoio, a un database, di parti testuali, frammenti, che hai scritto nel tempo, che anch’esse potevano essere state istintive al momento però non hanno poi portato a una canzone finita e quindi rimangono lì come parti di ricambio.

 

– Cosa ne pensi della scena musicale emergente? Cos’è per te la “musica indipendente?

Bisognerebbe stabilire i confini di questi termini e non è così facile. A seconda del traguardo, “emergente” può essere un percorso di vita infinito, e probabilmente è così nella maggior parte dei casi, e la stessa cosa vale per l’idea di “indipendenza”. Ci sono degli autori mainstream che si considerano indipendenti quando in realtà dipendono a pieno titolo da scelte manageriali e discografiche. Per fortuna o purtroppo nel nostro ambito italiano è facile essere liberi, nel senso che ci sono meno soldi in gioco, meno interessi e quindi si può rinunciare a qualcosa o sfanculare questo o quell’altro con molta tranquillità, al di là dell’indole personale che nel mio caso è abbastanza permalosa e cattiva. Credo che, in fin dei conti, e potrebbe valere per la terminologia
indie piuttosto che rock, è una questione di attitudine. Ci sono autori che vanno sul palco chitarra e voce e sono molto più rock di band con tutti gli strumenti e i suoni grossi sul palco, sia perché magari hanno qualcosa da dire, sia perché hanno bisogno di fare quella cosa realmente per “fame” e non perché devono uscire ogni due anni con un prodotto per poterci campare. Io cerco sempre di vedere quello, anche quando vado ai concerti, piccoli o grandi, alla fine è quella luce negli occhi che mi interessa. E si trova, per fortuna si trova. Sono anche esempi invisibili, artisti sconosciuti, ancora più sconosciuti del sottoscritto, però sono belle esperienze. Io faccio i complimenti raramente, però quando li vado a fare spero che abbia un valore e così quando mi vengono fatti. Sono scambi importanti che non vanno sottovalutati. Quindi direi questo: attitudine.

 

– Progetti futuri?

Si ricollega un po’ al discorso iniziale che tu hai posto tra fine di un tour e inizio di un altro: in realtà questo tour è un incidente, nel senso che mi sarei dovuto veramente concentrare sulla scrittura in questo periodo. Però sono uscite un paio di date, è uscita Tindari in particolare, l’Indiegeno al Teatro Greco, e una volta che organizzi da Torino un giro in Sicilia è chiaro che cerchi di collettare più date. Quindi ci siamo fatti questo ultimo regalo/sbattimento e una volta tornato, a settembre, devo mettermi assolutamente a chiudere brani, perché sono molto indietro, ho meno frammenti testuali e/o musicali da parte e quindi sarà più difficile. Per me è un’esperienza nuova, normalmente dico sempre quando faccio un workshop che è importante fregarsene di questa cosa e lasciare che il materiale sedimenti per avere poi il ritornello giusto da sposare a una strofa giusta. Probabilmente in questo momento della mia vita non potrò permettermi di fare quanto predico e vederemo cosa uscirà.

 

Veronica Della Vecchia

Foto esclusive: Sofia Bucci
Foto live: Umbi Meschini

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7 Comments

  • io lo ho conosciuto su questo sito , ho letto del disco e mi piacque
    lo trovo un cantautore di un altro livello. ne ha di cose da dire
    ero curioso infatti,bella intervista

  • Ce ne vorrebbero di più di artisti come lui . Mai provato sensazioni così forti ad un live . Dalle parole , alla melodia non c’è nulla di costruito o deciso a tavolino . E’ così naturale e avvolgente che merita di esser goduto dal vivo almeno una volta .
    Super consigliato !

    Intervista pulita e bella .

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