Non c’è bisogno che io vi dica chi sia Damon Albarn. Né da dove venga o dove stia andando. È inutile che faccia presentazioni del tipo, “Damon Albarn l’ex frontman dei Blur, capostipite del britpop, creatore della band virtuale di maggior successo di sempre, i Gorillaz, colui che ha riunito in un unico progetto (“The Good, the Bad and the Queen” è il titolo del disco) l’ex bassista dei Clash, Paul Simonon, l’ex guitar-man dei Verve, Simon Tong, e alla batteria il compagno di escursioni afrobeat Tony Allen”. Troppo tardi, ormai l’ho fatto..
A distanza di un anno da quando è venuto a esibirsi l’ultima volta a Roma, in compagnia dei suoi “vecchi” amici, i Blur, con cui si è riunito mosso forse dal vile denaro, nell’ennesima tappa di un tour che ha fatto il giro del mondo, il quarantaseienne Albarn ritorna a fare visita ai cittadini romani, questa volta all’Auditorium Parco della Musica, per presentare il suo ultimo disco, il secondo da solista, “Everyday robots”. Un disco intimo, profondo, autobiografico, grazie al quale è possibile fare un viaggio nel lato oscuro della mente del musicista inglese. “Everyday robots” parla della perdita del contatto umano causata dalla tecnologia («..It’s hard to be a lover when the TV’s on..», canta Damon con la sua voce elegante e profonda in “The Selfish Giant“), l’angoscia della solitudine, lo smarrimento di sé stessi, le dipendenze. Come quella dalla droga, descritta coraggiosamente nella malinconica “You and Me“.
Ma non è di questo che voglio parlare. A riguardo troverete senz’altro recensioni molto più interessanti e dettagliate di questa, impreziosite qua e là da precisi richiami a stili, musiche ed esperimenti pregressi del cantautore. Voglio raccontarvi il perché, dopo tanti anni, continuo a preferire il concerto, l’esibizione live, il contatto diretto con la voce di un’artista, qualunque esso sia, anziché l’ascolto accurato e imprigionato dal tempo di una musica registrata in studi costosissimi e lontani da me. Figuriamoci se si tratta di una delle voci più toccanti che esistano sul palcoscenico della musica contemporanea.
Ebbene, quando mi sono seduto all’interno della perfetta struttura acustica che ha ospitato la performance, la cavea dell’Auditorium, ed anche prima, mentre guidavo il motorino per le trafficate vie del centro, mi chiedevo se un disco così profondo e sensibile, avvolgente ma intimo, potesse essere compreso e apprezzato da un pubblico che probabilmente aveva in mente il Damon Albarn dei Blur, quello del 1997 o magari quello del 2013, non fa differenza. Io per primo serbavo ancora il ricordo di quella band sempre immensa anche se non più giovanissima che solo un anno prima mi aveva fatto urlare a squarcia gola in una notte stellata le note di “Tender” e “Universal“, di “Bettelbum” e “Country House“, per la prima volta davanti ai veri interpreti e non a quelli tante volte immaginati dall’altra parte dell’amplificatore. Forse, memore di quell’esperienza, il pensiero che potessi annoiarmi mi ha attraversato per un secondo l’anticamera del cervello, lo confesso. Mai pensiero fu più sbagliato.
La voce unica ed inconfondibile di Albarn mi ha deliziato sin dal primo assaggio, quello di “Lonely Press Play“. Dopo la seconda canzone, l’omonima “Everyday Robots“, il musicista ha iniziato a pretendere però qualcosa in più dal pubblico romano, invitandolo in una notte definita da lui stesso “very hot” a sciogliersi un po’. In cambio gli ha offerto qualche assaggio di quello che sarebbe arrivato poi: Gorillaz (“Tomorrow Comes Today“, “Kids with Gun“) e le apprezzatissime “Three Changes” e “Kingdom of Doom” di The Good, the Bad and the Queen, suonate come meglio non si poteva dalla sua band (tra cui spiccava un bassista che sembrava essere appena uscito da un film ambientato a Chicago negli anni Cinquanta).
La canzoni scorrevano velocissime, incensate dallo scroscio di applausi sempre più intensi che provenivano dalle tribune, mentre nel parterre le persone iniziavano a protendere mani verso Albarn che se avesse potuto le avrebbe abbracciate tutte quante. Un Albarn che riusciva a mescolare incredibilmente tenerezza, empatia, grinta e potenza vocale. Roma si era sciolta d’incanto e questo il musicista inglese lo ha sicuramente apprezzato. Perché ad un certo punto gli ha regalato “Out of Time“, suonata da solo al pianoforte per la gioia di tutti i presenti.
Il menù era completo (o quasi, mancavano all’appello ancora un paio di capolavori), niente era stato lasciato al caso. Albarn sapeva che per rimanere impresso nei cuori di quella gente avrebbe dovuto ripercorrere in quell’ora e mezza le tappe più importanti della sua vita. E lo ha fatto, senza dimenticarne nemmeno una. Lo ha fatto come meglio non poteva, offrendo anche un invasione di “palco” a chi si trovava nel parterre, continuando però a stringere tra le mani quel microfono che durante l’esibizione di “Clint Eastwood“, dei Gorillaz, ha fatto ripetere al pubblico più volte “I’m happy”, anche se il testo ripeteva l’esatto contrario, “I ain’t happy”.
Ma questa volta erano tutti felici, anche Damon, che ci ha congedati con un meraviglioso sorriso afro-brit. Perché rompere l’incantesimo?
Lorenzo Fois
immenso genio!
bell’incantesimo. stesse sensazioni di L.Fois. bella! 😉
lo amo! un concerto da scoppiare il cuore!!!!
l’ho visto appunto alla reunion coi Blur… questa non sono andata,ma per fortuna che c’è Fois e Uki!!! :O
LOL
I ain’t happy!!! COSA MI SONO PERSO……. grazie del report al Lorenzo Fois
Un genio che ha ancora cose da dire…..e lo fa benissimo