Chiara Vidonis: finché c’è Fame c’è vita! [Intervista]

Otto tracce che riportano la cantautrice triestina al centro della scena indipendente italiana, dopo il folgorante esordio nel 2015 con “Tutto il resto non so dove”, disco che ha raccolto unanimi consensi sulla brillante creatività di questa artista

Chiara Vidonis ha all’attivo anni di concerti in tutta Italia, una serie di premi e riconoscimenti, tra cui la vittoria del “Premio Bianca D’Aponte” nel 2011 nella categoria “miglior interpretazione” e del “Premio Pigro – omaggio a Ivan Graziani” nel 2014 con il brano inedito “Comprendi l’odio”, oltre alla partecipazione all’album “Tregua 1997/2017 – Stelle buone”, riedizione del primo album di Cristina Donà, “Tregua”, nella celebrazione dei 20 anni dalla sua uscita.
Il nuovo disco, prodotto da Karim Qqru (The Zen Circus), contiene otto brani essenziali nella durata ma espansi nella pienezza compositiva e autoriale, una prova di maturità che rende questo album profondo nelle parole che declinano amore e desistenza, accurato nei suoni, contemporaneo e dall’attitudine rock, incisivo ma anche intimo… Abbiamo intervistato Vidonis per capire meglio un tale scossone offerto con così tanta delicatezza…

  • Ciao Chiara! Il tuo ultimo album si chiama “La mia fame”. In questi tempi complessi la fame assume per noi più significati: fame di dialogo, fame sociale, fame di pace, fame che a volte ha il sapore della rabbia… Tu di cosa hai fame?

Ho cercato di indagare il concetto di fame con questo disco, proprio per cercare di rispondere a questa domanda in modo onesto. Non ho sempre una fame che mi porta al nutrimento, spesso mi faccio tentare dalla fame che è solo un meccanico ingurgitare notizie, concetti, superficialità. Il mio augurio è di farmi muovere dalla fame bella, quella che fa evolvere come esseri umani, quella che descrivo appunto nel brano “La mia fame”. Una fame che è desiderio di conoscere l’altro senza fretta, senza far diventare questa spinta una dipendenza, una fame appassionata ma lucida.

  • Le atmosfere dell’ultimo album sono molto intime, è la voce a guidare un percorso fortemente introspettivo, profondo. Quanto credi che ciò sia influenzato dalla solitudine e dall’isolamento che hanno caratterizzato i due anni di pandemia?

Il disco non è stato influenzato dalla pandemia, sono entrata in studio a dicembre 2019 con l’idea di chiudere tutto entro la prima metà del 2020. Quindi avevamo già le idee abbastanza chiare sulla direzione che la produzione avrebbe preso. Direi che più che dalla pandemia, mi sono fatta influenzare dalla mia esigenza di un disco più intimo, ho avuto meno bisogno di gridare rispetto al primo disco, decisamente più aggressivo nei testi ma anche nel cantato.

  • «Un mondo migliore non c’è, di quello che ho nella testa»… vuoi parlarci del mondo che hai nella testa?

Non è di certo facile rispondere a questa domanda, anche perché credo di averne molti che si sovrappongono e che possono anche contraddirsi. È per questo che spesso abbiamo bisogno di trovare nelle idee di qualcun altro qualcosa in cui credere ciecamente, qualcosa di cui fidarci. Non so quale sia il mondo che ho nella mia testa, è per questo, credo, di aver scritto il brano a cui fai riferimento “Quello che ho nella testa”.

  • Nella tua musica convivono rimandi ad atmosfere, luoghi, generi, diversi. Sei originaria di Trieste, città di confine e importante città di cultura. Ci parli un po’ del tuo percorso musicale fino ad ora? Credi che la valenza multiculturale e lo scambio di lingue e tradizioni che caratterizzano la tua città natale abbiano influenzato le tue scelte musicali?

Credo che la mia provenienza mi abbia influenzato più come essere umano che come musicista. Vivere in un luogo di confine ti mette sempre nella condizione di essere un po’ distante dal resto del Paese. Da piccola mi chiedevo come fosse vivere a Roma, essere sempre al centro di tutto. Poi a Roma ci ho vissuto per 10 anni e non mi sono mai sentita al centro di nulla. Anzi, vivere a Roma era faticosissimo e infatti me ne sono tornata a Trieste. Vivere a Roma significa mettere la città al primo posto, perché ti condiziona talmente tanto che ti perdi. E non mi piaceva. Certo, Trieste ha i difetti della provincia, ma io sono una persona abbastanza solitaria e con bisogni semplici, quindi è una città perfetta per me. Quando ho iniziato a suonare ho sofferto un po’ la mancanza di opportunità della piccola città, ma poi ho capito che il contesto non è così importante e che le cose succedono prima di tutto dentro di noi.

  • In questo album vi sono rimandi e critiche alla tradizione cattolica e alle sue conseguenze, oltre all’educazione patriarcale della vita quotidiana e delle relazioni tra persone… In passato hai partecipato con “Quando odiavo Roma” al progetto Women Against Violence, i cui incassi sono stati devoluti al Centro Donna Padova a sostegno delle vittime di violenza e stalking. Quale credi sia il ruolo della musica e dell’arte rispetto all’impegno nel sociale?

Credo che la musica sia molto importante per molte ragioni, ma personalmente non sento di farne un manifesto sociale o politico. Cerco di rimanerne slegata e, semmai, cercare di trasmettere l’idea che attraverso la musica possiamo fare una cosa importantissima per ogni essere umano: cercare una dimensione per esprimere il nostro mondo interiore. La creatività credo sia una risorsa fondamentale per ogni essere umano, soprattutto nella sua fase di formazione, di crescita. Quindi se la musica ha un valore sociale direi che per me è questo. Per me l’incontro con la prima chitarra è stato fondamentale, chissà cosa avrei fatto se non avessi imparato a suonare, come mi sarei espressa… forse avrei cercato un’altra via creativa per farlo.

Irene Margiotti

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