Brucia Rachele, brucia per sempre

C’era una linea incandescente che li univa... era un filo rovente che bruciava e che li teneva stretti [Racconto breve]

 

 

All’età di ventisei anni e mezzo divorziai da mia moglie Rachele. Il nostro matrimonio era durato pressappoco nove mesi.
All’epoca ero talmente squattrinato che il massimo che potei offrirle come viaggio di nozze furono tre giorni nascosti in una casa di campagna abbandonata, alle volte rifugio di bucomani e clochard.
Ma per Rachele non era questo l’importante: erano i giorni in cui il fuoco dell’amore divampava e ardeva come un diavolo per le vene e per le arterie, sui nostri colli lisci, sui nostri pomeriggi, sulle gambe e sulle labbra, era un rogo bambino che alimentava ogni pensiero.

La conobbi che aveva solo diciotto anni ed era già la donna più bella in assoluto.
Rachele non parlava mai, era chiusa nel suo mutismo etereo, rimaneva immobile, avvolta nelle sue rifiniture in porcellana.
Non studiava, non lavorava, non aveva progetti, non aveva ambizioni, perché lei era parte della natura, lo sapevamo entrambi.

Io scrivevo articoli di cronaca per un quotidiano locale, guadagnavo una miseria, lavoravo fino a tardi e soffrivo di un costante dolore alle schiena e ai reni. Vivevamo in un monolocale vicino la stazione, praticamente uno stanzone senza pareti, con cucina, letto e cesso.

Ma c’era una linea incandescente che univa me e Rachele, era un filo rovente che bruciava e che ci teneva stretti.

Una notte entrò un topo in casa, un grosso ratto grigio. Il sorcio balzò sopra Rachele e la morse tre volte sul polpaccio.
Le salì una febbre alta e pestilenziale. Andammo all’ospedale. Dopo due settimane venne dimessa e decise di non vedermi più.

La casa senza di lei era solamente un punto vuoto che vagava senza meta, nell’universo sconfinato.

Ogni notte un fuoco fatuo si accendeva nel posto vuoto del letto di fianco al mio: mi piaceva pensare che fosse il suo spirito sincero che vegliava su di me. Una mattina arrivò la lettera di un avvocato, era la richiesta di divorzio da parte di Rachele. Mi veniva intimato di firmare. Presi la lettera e mi recai di corsa dall’avvocato, il cui indirizzo era stampato in fondo al foglio. Ero allo strenuo delle forze, negli ultimi due giorni avevo mangiato solo un pezzo di pane con sale e pepe.

«Avvocato, cosa significa tutto questo?» gli chiesi.
«Guardi, non so cosa dirle, la mia cliente ha insistito affinché lei firmasse…» rispose.
«Ma che fretta c’è? Non capisco» incalzai.
«Mi pare logico: la mia cliente ha una certa fretta di ultimare la pratica per potersi nuovamente unire in matrimonio con altra persona».

Bruciavo dentro. Erano le fiamme del sentimento che fluivano impetuose e senza direzione. Vagai tutta la notte, brillando al buio. L’indomani andai in ufficio e decisi di licenziarmi, per potermi concentrare sul pensiero di Rachele. Cominciai a frequentare gli ambienti della stazione. Strinsi amicizia con Waldo e Ursula, una coppia di nomadi con una dozzina di cani al seguito. Stavo quasi tutto il giorno insieme a loro. Avevo cominciato a sniffare vernice, per non pensare al cibo e per non pensare a Rachele.

Rubavamo secchi di vernice da un vecchio ferramenta, poi andavamo sotto il vecchio ponte e inalavamo forte finché non ci addormentavamo, tramortiti dalle pulsazioni del cuore e del cervello. Un pomeriggio, in preda ai tremori ed alle allucinazioni, mi sembrò di vedere il fuoco fatuo di Rachele: era il suo animo gentile che sentivo accanto a me! Il fuoco dolce del ricordo che ti leviga la testa e non ti vuol lasciare andare. Il fuoco si spostava, lo seguii senza fiatare. Mi condusse per chilometri, prima di arrestarsi di fronte al cancello di una piccola villetta. Adesso era chiaro, cristallino nella mia mente maciullata: quella era la casa in cui Rachele viveva col suo nuovo compagno e quella dall’altra parte della strada era la pompa di benzina da cui potere prendere tutto l’occorrente. Sospinto dalle dosi malandrine di vernice che mi rendevano leggero, avevo scavalcato il cancello e distribuivo con cura la benzina intorno al perimetro dell’appartamento. Poi accesi il miscuglio di cherosene, lacrime e ricordi. Mentre la luce brillantina delle fiamme mi illuminava il volto, mi sentivo libero e sereno, rinnovato nello spirito, canticchiavo un motivetto in do maggiore che diceva «brucia Rachele, brucia per sempre».

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Giuseppe Catanzaro

 

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