Nell’aprile del 1945 le truppe sovietiche entrarono a Berlino. Adolf Hitler, rinchiuso nel suo bunker, si tolse la vita assieme ad Eva Braun e i suoi fedelissimi. Stessa sorte toccò a Benito Mussolini, giustiziato qualche giorno prima a Giulino di Mezzagra assieme a Claretta Petacci da un commando partigiano. Nel settembre dello stesso anno, le autorità statunitensi e giapponesi si incontrarono sulla corazzata Missouri nella baia di Tokio: i nipponici firmano la resa senza condizioni spaventati dai funghi atomici di Hiroshima e Nagasaki. Sono tre episodi chiave che determinarono la fine della seconda guerra mondiale e la vittoria delle Forze Alleate. Dopo 6 lunghi anni di orrore e tragedia, era finalmente giunto il tempo di ricostruire, anche per lo sport.
Il calcio tornò alla normalità nel giro di due anni. Nel dopoguerra la Federazione Italiana, estremamente rinnovata sotto molteplici aspetti, si preoccupò subito di allestire una squadra da mandare alle Olimpiadi di Londra 1948, dove, a differenza di Germania e Giappone, entrambe messe in quarantena dal CIO, fummo straordinariamente ammessi. Il cammino degli azzurri si fermò dopo la batosta per 5-3 subita dalla Danimarca, i cui migliori talenti vennero subito ingaggiati dai club di casa nostra. Ad aggiudicarsi il torneo fu però la Svezia, che trascinata dalle prodezze dei vari Gren, Nordahl, Liedholm, Andersson, Rosèn (tutti finiti nel campionato italiano), conquistò il primo (e fino ad oggi ultimo) titolo internazionale della sua storia calcistica.
La seconda metà degli anni ’40 in Italia vide il dominio incontrastato di una squadra il cui nome è ormai leggenda: il Grande Torino. Il Torino di Gabetto, Valentino Mazzola, Menti e Loi, capace di vincere il campionato per 4 anni consecutivi battendo ogni sorta di primato. Ma la favola di questa leggendaria formazione, che di fatto componeva nove undicesimi della Nazionale, ebbe un tragico epilogo. Il 4 maggio 1949, l’aereo che trasportava i giocatori granata provenienti da una trasferta a Lisbona, si schiantò sulla collina di Superga, alle porte di Torino, a causa di un fitto banco di nebbia. Una sciagura nella quale persero la vita tutti i passeggeri a bordo. La squadra capitanata da Valentino Mazzola, uscì così dalla storia del calcio per essere consegnata al mito per l’eternità.
1950: il Brasile abbraccia il mondiale
Per l’edizione mai disputata del 1942, presentarono la propria candidatura Germania, Brasile e Argentina, ma per evitare di ri-alimentare le polemiche legate alla famosa alternanza, la scelta di un paese sudamericano sarebbe stata pressoché obbligata. Saltate per ovvi e noti motivi le edizioni ’42 e ’46, in una storica riunione tenuta in Lussemburgo il 25 luglio 1946, la Fifa decise coraggiosamente di rimettere in moto la macchina ‘Mondiale‘ programmando la 4^ edizione per il 1950. La Guerra aveva martirizzato tutta Europa, per cui l’unica nazione che si prese la responsabilità di presentare una candidatura fu il Brasile. La scelta unanime e immediata (quanto obbligata) della Fifa, affidò dunque ai brasiliani onori e oneri di organizzare il 4° Campionato del Mondo di calcio.
Nonostante un tentennamento iniziale dovuto alla tragica situazione economico-politica del dopoguerra, l’Italia accettò di difendere il titolo di campione in carica dopo l’offerta della Fifa di pagare per intero le spese della trasferta. La tragedia di Superga non era ancora stata dimenticata, per cui la Federazione decise di recarsi in Brasile per nave. Scelta questa che certamente non favorì la prestazione degli atleti italiani alla rassegna iridata.
La nazionale azzurra, detentrice del trofeo da 12 anni e orfana del Grande Torino, era stata affidata al duo Novo-Bardelli dopo il siluramento di Pozzo per il tracollo ai giochi londinesi del ’48. Nonostante la perdita dei leggendari campioni granata, la squadra era comunque composta da campioni di tutto rispetto: Boniperti, Annovazzi, Parola e Carapellise, erano infatti giocatori di gran classe e di indubbia affidabilità.
Il mondiale casalingo rappresentava per il Brasile una ghiotta opportunità di alzare finalmente l’ambito trofeo. Nel 1950 i verdeoro potevano contare su una selezione davvero invidiabile: Ademir, che proseguiva la tradizione di grandi attaccanti dopo Leonidas, Zizinho, Augusto e Chico, erano autentici fuoriclasse che costituivano la speranza mondiale di milioni di appassionati.
Tolti i due posti assegnati di diritto a campioni in carica e paese ospitante, ne restavano da spartire 14. La vera novità fu rappresentata dall’Inghilterra, finalmente decisa a partecipare dopo un ventennio di isolamento. Nel complesso i meccanismi delle qualificazioni al mondiale 1950 furono poco chiari: a causa delle precarie condizioni economiche e sociali di molti paesi, si registrarono numerosi forfait e defezioni. Escluse Germania e Giappone, ritenute maggiori responsabili della guerra, mancarono all’appello anche Austria, Belgio e i paesi dell’Est Europa. Esclusa l’eliminazione della Francia per mano della Jugoslavia, le qualificazioni non regalarono grosse sorprese, piuttosto rinunce ed esclusioni curiose. La Fifa infatti offrì ai galletti un insperato ripescaggio, ma la federazione transalpina declinò di accedere alla competizione passando per la finestra dopo essere uscita dalla porta. Stesso discorso valse per la Scozia: il secondo posto ottenuto nel Torneo Interbritannico alle spalle dell’Inghilterra, validato dalla Fifa come qualificazione, avrebbe comunque qualificato gli scozzesi al mondiale; la nazionale britannica aveva preventivamente dichiarato che avrebbe partecipato al mondiale solo da vincitrice del girone. E così fu.
Poco prima dell’inizio del Mondiale infine anche l’India venne invece esclusa dalla Fifa: la squadra indiana, che disponeva tra l’altro di una formazione discreta, era solita disputare i propri incontri a piedi nudi, condizione questa non prevista dal regolamento imposto anni addietro da Hules Rimet. L’ultimo forfait dato dallo Turchia, costrinse la Fifa a dare il via alla manifestazione con sole 13 squadre, il minor numero di sempre al pari con l’edizione del 1930: cinque sudamericane (Brasile, Argentina, Cile, Paraguay e Uruguay) due nordamericane (Messico e Stati Uniti) e sei europee (Italia, Spagna, Svezia, Jugoslavia, Inghilterra e Svizzera).
Mentre il Brasile domina la scena, Italia e Inghilterra deludono le attese
Le varie esclusioni obbligarono la Fifa ad optare per una formula a gironi: le vincenti dei 4 raggruppamenti (2 da 4 squadre, 1 da 3 e 1 da 2) si sarebbero affrontate in un gruppo finale con partite di sola andata; la squadra prima classificata si sarebbe laureata Campione del Mondo.
La prima verifica per gli azzurri fu contro la Svezia campione olimpica. Con due reti di Jeppson e una di Andersson, gli scandinavi misero la parola fine all’imbattibilità azzurra ai mondiali e ci sconfissero per 3-2 (di Carapellese e Muccinelli le segnature italiane). Il 2-2 tra Svezia e Paraguay del turno successivo ci eliminò dalla competizione ancor prima di scendere in campo: inutili i gol di Carapellese e Pandolfini per il 2-0 imposto ai sudamericani. Fatte le valige, ce ne tornammo a casa. Questa debacle fu senza dubbio provocata dalla scelta della federazione di affrontare il viaggio verso il Brasile per nave: una traversata sfiancante che per 3 lunghe settimane aveva impedito agli azzurri di prepararsi adeguatamente, visto e considerato che i palloni, unica valvola di sfogo per i calciatori, finirono tutti in mare dopo pochi giorni. Oltre a questo la nazionale pagò pesantemente la tragedia di Superga, ritrovandosi senza nove undicesimi della squadra titolare.
La formazione più attesa, dopo quella di casa, era ovviamente l’Inghilterra, la madre patria del football che finalmente aveva deciso di mettersi in gioco in una competizione internazionale. Dopo il facile esordio contro il Cile (battuto 2-0), nella seconda gara contro i cugini statunitensi si verificò una delle più clamorose sorprese della storia del calcio. Un gol di Gaetjens, centravanti di una squadra composta per lo più da studenti di college e università, mise in ginocchio gli inventori del calcio per 1-0. La successiva gara contro la Spagna, persa ancora per 1-0, fece capire al mondo intero che l’epoca della grande ed invincibile Inghilterra era ormai finita.
Come da pronostico la squadra di casa non ebbe problemi nel vincere il proprio raggruppamento, ma dopo il 4-0 inflitto nella gara d’apertura al Messico, i brasiliani peccarono come loro solito di presunzione finendo bloccati per 2-2 dalla Svizzera nel secondo turno. Nella gara decisiva per la vittoria del girone, Ademir e compagni non fecero però sconti alla Jugoslavia, battuta con un secco 2-0 che valeva l’accesso al turno successivo.
Il quarto e ultimo biglietto per il girone finale se lo giocarono Uruguay e Bolivia, entrambe componenti del gruppo 4. Dopo il dominio assoluto degli anni ‘20, culminato col successo nel mondiale casalingo del 1930, l’Uruguay si era chiuso in un isolamento continentale. La generazione d’oro dei vari Scarone, Cea, Andrare era ormai tramontata e da quel trionfo mondiale arrivarono solamente due successi in Coppa Sudamericana, nel ’35 e nel ’42. Ad ogni modo la Celeste si presentò all’appuntamento brasiliano del 1950 con una formazione ricca di talenti, e l’8-0 inflitto ai vicini boliviani nella gara d’esordio fece intendere a tutti le qualità degli ‘orientales‘.
Perse per strada Inghilterra e Italia, nessuno sembrava in grado di intralciare il passo del Brasile di uno scatenato Ademir: il 7-1 alla Svezia e il 6-1 alla Spagna lanciarono i padroni di casa verso la partita finale, che per tutto il paese rappresentava solo l’ultimo step prima della festa. Solo l’Uruguay resse il confronto, ma con molto meno clamore, dei verdeoro: il 2-2 con la Spagna e il 3-2 sulla Svezia, risultato questo ottenuto al termine di un match durissimo, permisero alla Celeste di andarsi a giocare il trofeo nell’ultima gara del girone contro il Brasile, match che rappresentava una finale a tutti gli effetti.
“O Maracanaço”: la peggiore tragedia sportiva della storia brasiliana
I tre punti conquistate nelle due gare (all’epoca la vittoria valeva due punti) permettevano all’Uruguay di sperare ancora, ma solo con un successo la Celeste avrebbe potuto superare il Brasile a cui invece bastava un pareggio per alzare la tanto agognata Coppa Rimet. Ma a questa eventualità nel paese carioca nessuno aveva minimamente pensato: con 13 gol in due incontri, la partita contro l’Uruguay rappresentava una semplice pratica da archiviare prima di iniziare i festeggiamenti. Festeggiamenti che in realtà partirono già da 24 ore prima della finale. Per le vie del Paese si scatenarono caroselli colorati e rumorosi, mentre la mattina del 16 luglio (giorno della finale) per le strade di Rio fu addirittura improvvisato un carnevale. In tutto il Brasile furono vendute 500,000 magliette con scritto Brasil Campeao 1950, mentre il giorno della partita la stampa locale uscì con titoli celebrativi: “O Brasil vencerá” (il Brasile vincerà) si leggeva sul “Diário do Rio“, mentre “O Mundo” pubblicò in prima pagina la foto della squadra brasiliana sovrastata dal titolo “Estes são os campeões do mundo” (questi sono i campioni del mondo). Infine, oltre all’enorme quantità di razzi, coriandoli, stelle filanti, petardi e mortaretti pronti ad essere immolati al fischio d’inizio, vicino agli spogliatoi vennero piazzate undici auto di grossa cilindrata, stracolme di fiori e di belle ragazze, pronte ad accogliere ogni eroe della grande vittoria.
Alle ore 15 del 16 luglio 1950, 200,000 persone affollarono il catino del Maracanà, stadio di Rio che ospitava l’ultimo atto del Mondiale 1950, un record imbattuto ancora oggi per una partita di calcio. Al fischio d’inizio la squadra di casa partì a tutta birra per cercare di chiudere subito i conti. I difensori uruguagi Varela, Tejera e Gonzales furono costretti agli straordinari per aiutare il portiere Màspoli a proteggere la porta dagli attacchi brasiliani, che nonostante l’enorme sforzo rimbalzavano costantemente sul muro eretto dagli avversari. Dopo una pausa dovuta allo scoraggiamento, la torcida brasiliana esplose al 2′ della ripresa, minuto in cui Friaca portò in vantaggio i padroni di casa. Il gol non scompose più di tanto gli uruguaiani, che scossi dallo svantaggio si misero a giocare il loro calcio tecnico e veloce. Dopo un paio di tentativi non andati a buon fine, fu Schiaffino a trovare il pareggio al 21′. Lo stadio diventò una tomba e la preoccupazione prese il posto dell’euforia. Il Brasile col pareggio sarebbe stato comunque campione, ma gli assi verdeoro non sembravano più capaci di giocare con scioltezza: avevano paura. A 11′ dalla fine accadde l’impensabile: Ghiggia, entrato in area dopo aver eluso gli interventi dei difensori, batté Barbosa con un preciso diagonale. Questo fu l’ultimo sussulto: il 2-1 consegnava nelle mani di capitan Varela la seconda Coppa Rimet della storia uruguayana.
Per il popolo carioca fu un autentico dramma. Un dolore irrefrenabile che portò a diversi infarti e suicidi proprio al triplice fischio (alcune fonti parlano addirittura di 12 morti). La sontuosa festa programmata per la vittoria del Brasile fu ovviamente annullata; le autorità brasiliane abbandonarono lo stadio prima della premiazione, lasciando al solo Rimet il compito di consegnare il trofeo ai veri vincitori. La vittoria della Celeste non fu omaggiata nemmeno dalla banda, impossibilitata a intonare l’inno in quanto sprovvista dello spartito (ritenuto inutile). Il Brasile proclamò tre giorni di lutto nazionale e molti brasiliani, per delusione o perché avevano perso tutto scommettendo gran parte dei propri averi sulla vittoria della Seleção, si tolsero la vita: alla fine furono certificati 34 suicidi e 56 morti per arresto cardiaco in tutto il Paese.
Il Presidente Jules Rimet ricordò così quel giorno: «Era stato tutto previsto, tranne la vittoria dell’Uruguay. Al termine della partita, io avrei dovuto consegnare la coppa al capitano della squadra campione. Mi ritrovai da solo, con la coppa in braccio e senza sapere cosa fare. Nella confusione, scorsi il capitano dell’Uruguay, Obdulio Varela, e quasi di nascosto, stringendogli la mano, gli consegnai la statuetta d’oro e me ne andai, senza riuscire a dirgli neanche una parola di congratulazioni per la sua squadra». (fonte Wikipedia)
Carlo Alberto Pazienza
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SPECIALE MONDIALI:
> “World Cup Story -Il gioco più bello del mondo” (Part. 1)
> Uruguay 1930 (Part. 2)
> Italia 1934 (Part. 3)
> Francia 1938 (Part. 4)
> Svizzera 1954 (Part. 6)
> Svezia 1958 (Part. 7)
> Cile 1962 (Part.8)
mamma mia che storia..
ricordavo una storia del genere,ma non in questi termini.
bellissimo speciale su Uki,complimenti!
povera Italia,senza palloni neanche per allenarsi…..sulla nave poi. e povero Brasile….soliti presuntuosi però eh..
Lol per il Pazienza! Un’avventura a tutto sport!
immagino solo la goduria dell’Uruguay!!!
manco la crisi fa tutte queste vittime
non sapevo di questo mondiale….bellssimo Speciale di Pazienza
uh che tristesz…
incredibile….un Mondiale difficile da dimenticare, dopo una guerra mondiale poi…
speriamo che quest’anno ne vivremo uno spettacolare per l’Italia!
interessantissimo Uki!
con le dovute proporzioni, le parole scritte dal Pazienza sembrano uscite dalla bocca dell’avvocato Buffa….davvero complimenti!