Il vociare confusionario del salotto era interrotto saltuariamente dal tintinnio dei cucchiaini d’argento contro le tazze da thè di porcellana di Creta, ornate da scene di caccia di eroi mitologici.
La conversazione proseguiva ormai da più di un’ora e gli ospiti apparivano affiatati e incuriositi l’uno dell’altro, i tappeti iraniani attutivano il peggio nei loro mille nodi turchi.
Chiaramente il grosso delle domande era rivolto al sottoscritto che tentava di districarsi dall’aggrovigliarsi della lingua inglese ai lati della bocca.
Il thè era squisito, verde con un leggero tocco di vaniglia fresca, comprata in qualche bancarella del mercatino di natale di Friedrich Strasse, probabilmente una di quelle situate all’angolo tra la fermata metro e il Cafè Balzàc, e i biscotti allo zenzero, che troneggiavano spavaldi all’interno di un vassoio al centro del tavolino basso e di legno dalle venature rossastre e lucide, li avevo portati io comprandoli proprio al Cafè Balzàc.
Tutti gli ospiti erano rimasti contenti dal gesto del portare le paste che, anche evidentemente per quell’insolita generosità, oltre che per la bontà stessa del prodotto, manifestarono allegramente il loro consenso nel trangugiare l’intero vassoio, innaffiandolo con litri di caldo thè.
La mia Signora era seduta su un divanetto impero tappezzato di rosso e oro e col braccio alto poggiato sullo schienale teneva delicatamente poggiato il capo, come la Paolina Borghese canoviana.
Accanto le si era fermata più calorosa la presenza della madre Regina della pianeggiante Minsk e di tutta la Torah, indossava un foulard colorato di seta dalle mille tonalità di blu persiano e teneva delicatamente le mani bianche e morbide, dalle unghie smaltate con un colore tenue, una sopra l’altra, alternando, alle volte, leggere carezze sul viso della mia Signora.
Il terzo posto sul divanetto stile impero era stato occupato da Feona, amica di una vita della mia Signora, e i suoi capelli biondi come il sole caldo della primavera scivolavano lenti sulla spalliera rossa confondendosi con gli orli dorati del divano e con la sua risata coinvolgente e squillante.
Il padre, nostra santità, sedeva anch’egli su una poltrona dello stesso stile impero, ma tappezzata a righe panna e celeste che dava un tocco pop all’intero arredamento e nel parlarmi della sua cattedra alla facoltà di matematica presso l’Università di Mosca mi raccontò con maggiore allegria dei risultati conseguiti da qualche suo allievo dal nome russo impronunciabile che aveva conseguito prestigiosi premi internazionali, anche in ambito della fisica applicata e dei laboratori di ricerca atomica situati nell’estremo est della Siberia.
Io ascoltavo soffermandomi sui lineamenti squadrati del viso dell’uomo, non più giovane, e sul suo sguardo svuotato.
Nell’aria intorno ronzava una sinfonia di violini irradiata da due casse di legno semi nascoste dentro un mobile vetrina che rendeva il Natale ancora più vicino e più sacro.
La coppia che sedeva a lato della mia postazione, ovvero il fratello del santo padre, e la sua compagna Sveta in vestito tubolare sabbia e scintillio di collane sembravano molto interessati ai miei racconti sul Dante, sul pensiero pitagorico, sull’armonia celeste dei corpi astrali, la storia post-unitaria del meridione e sui posti che a mio dire avrebbero dovuto visitare qualora avessero deciso di affrontare il tanto atteso viaggio in Italia.
La loro curiosità e le loro domande curiose di riferimenti antropologici me li fece fin da subito apparire come una coppia di viaggiatori di inizio ottocento, dai mantelli di feltro verde caccia, che si spostavano alternandosi tra carovane su strade bianche e infestate di briganti.
Sorrisi quando pensai al loro stupore nell’affrontare il primo viaggio sulla locomotiva a vapore, alle loro facce sbigottite da dietro i finestrini.
Il padre spostò la conversazione parlando della sua folle passione per i libri antichi che lo aveva portato a collezionare migliaia di rari volumi e prime stampe, la mia Signora mi aveva fatto vedere alcune foto della collezione, e io dissi di aver apprezzato i volumi in russo della opere di Helena Blavatsky e in particolare il volume dell’Iside Svelata del 1877.
Lui lodò il mio interesse e zigzagando nella conversazione si ritrovò a parlare dello straniamento brechtiano e dei walzer di Strauss e invitò me e, ovviamente, la mia Signora a recarci in un prossimo futuro a far visita al suo magione di campagna sito sulle verdeggianti colline di Salisburgo.
Successivamente, io e la mia Signora parlammo del nostro stupore nell’aver trovato l’ambiente berlinese di una meravigliosa curiosità intellettuale, dei numerosi teatri di prosa e delle rassegne dei cinema d’essai e dell’ultimo film alla cui prima avevamo assistito il pomeriggio precedente.
La mia Signora, poi, parlò abbondantemente dei due o tre locali che avevamo visitato a Charlottemburg e che sarebbero stati fantastici per allestire la mostra dei suoi dipinti, nonché sulle modalità di trasporto più economiche delle tele da Innsbruck, dove attualmente si trovavano esposte, a Berlino.
Io, in ogni caso, continuai a pensare alle avventure degli zii novelli viandanti ottocenteschi in giro per le zone più disastrate del bel paese.
Poi smisi di trastullarmi con inutili sceneggiature di improbabili pièce comici quando la Regine della Steppa cominciò a pormi domande investigative.
Precedentemente avevo scansato il pericolo delle domande indagatrici con risposte trasognanti ed abbastanza volatili.
L’interrogatorio si fece sempre più serrato – «Dove hai conosciuto mia figlia? Che genere di mestiere fai? Quanto guadagni all’anno? Trovo curiosi i tuoi capelli mossi e lunghi, ma siete tutti sempre allegri li in Italia? Vai a messa frequentemente? Strano come le nostre religioni siano così simili…» –
Raccontai loro dei miei fasulli guadagni, delle situazioni avverse, degli investimenti sbagliati, della mia voglia di partire, e del fatto che in ogni caso nessuna cifra sarebbe mai stata più degna dei diamanti del più fondo abisso degli occhi della mia Signora – non è vero, raccontai loro solo balle e l’ultima roba sui diamanti e sulla mia Signora.
Sì, il discorso arrivò anche al mio futuro più prossimo con la mia Signora, a dove saremmo andati a vivere e, probabilmente, la Regina della pianeggiante Minsk era pronta per la domanda – «Vi sposerete con il rito cattolico o ebreo? E i vostri figli che direzione prenderanno?» – se solo non avesse trovato il coraggio di entrare nel mezzo del discorso in scivolata l’amabile zio Ferdinand il quale, molto soddisfatto delle precedenti risposte intorno al suo imminente viaggio italiano, attaccò a parlare della sua azienda di pesca e delle sue navi e di come era dura la vita d’inverno tra le isole Curili quando il Pacifico è in tempesta e l’apocalisse giunge dall’oceano.
Io sapevo, in ogni caso, che la mia Signora in disparte mi osservava scrupolosamente, e osservava le mie reazioni a ogni parola che ascoltavo, i miei gesti, l’accento del mio inglese del tutto errato.
Dalla finestra larga alle spalle del divano in stile impero, il cielo di Berlino era illuminato dal bagliore delle insegne al neon dei mercatini di natale, la gente come un fiume mangiava manicotti di Boemia alla vaniglia appena sfornati comprando gli ultimi regali, ancora più lontano, poi, si ergeva perpendicolare Alexander Platz, come una navicella spaziale vigile sulla città.
Sicuramente, pensai, nessuno di voi avrà mai visto vostra figlia tentare di insegnarmi il tango a piedi scalzi nella luce rossastra del tramonto sferzato dalla brezza e dalle onde diagonali del mare sui resti di una torre di un castello di pietra salmastra.
Sicuramente la spiaggia al di sotto era deserta e i pochi passanti si rintanavano nelle loro case dalla sera di fine settembre che come una mamma richiamava a casa i propri figli che giocavano a calcio per strada per la cena.
E la mia Signora tintinnante nella penombra rossa del tramonto teneva dura la sua mano nella mia guidandomi, mio burattinaio, per le traiettorie binarie dei suoi pensieri.
Nessuno avrebbe saputo del nostro giro al museo di campagna di quando ci innamorammo tenendoci per mano con gli occhi sporchi di sale come bambini.
In quell’interno berlinese, saturo di spezie e dolci propositi borghesi, di tutto questo erano rimaste solo alcune confidenze che la mia Signora si lasciò andare con la Regina di Minsk, probabilmente la mattina in cui facemmo colazione a base di pizza e caffè in mezzo a un aranceto sul finire della spiaggia e certo, ora, non vi sarebbe mai stata nessuna altra intromissione tra il mio mellifluo flusso di immagini e l’ambiente rococò intorno.
Poi, d’improvviso un tuono dalla strada, fondo come proveniente dal centro del mondo, riempì le espressioni di tutti di orrore e sgomento silenziosi.
La vetrata della finestra larga crollò a pezzi come coriandoli di carnevale tintinnando tra il davanzale e il pavimento.
Una bomba era scoppiata giù in strada, i morti a centinaia per le vie, colonne di fumo, allarmi, sirene di polizia e ambulanze.
La mia Signora restò per sempre fedele alla sua posizione canoviana sul divano, nonché ai suoi occhiali da sole, al tango ed alle aranciate amare, sebbene il nostro interno borghese fosse stato per sempre drammaticamente violato.
Giancarlo Pitaro
le parole, le descrizioni , l’aria che troneggia alla lettura …… l ‘ ho già detto che Giancarlo Pitaro è uno dei miei preferiti del blog ?!
:))
terrible
davvero bello. ben scritto e suggestivo nella sua attualità informe
complimenti a Pitaro
Una giornata qualunque nella stanza dei bottoni
Perfetto! Bravissimo Giancarlo
Scrittore fenomenale! Eccezionale Pitaro! Ottimo racconto ….
Grande racconto, è proprio bravo questo Pitaro!
sempre potente Giancarlo! Piaciuto tantissimo anche questo racconto