Da caratteristica di carcerati e freak, allo sdoganamento sulle passerelle della moda: il rapporto che la nostra società ha col tatuaggio, e con la “body modification” più in generale, ha subito negli ultimi dieci anni un andamento esponenzialmente crescente di popolarità, e ormai è appannaggio di tutti, dalla madre di famiglia alla fighetta con la Vuitton al braccio (piccola parentesi: sentiamo davvero ancora la necessità di preservare questo orrido status symbol di pelle marrone? È incredibile come passino le generazioni ma essa resista imperturbabile sulle lenzuola di tutti gli ambulanti della penisola). Rihanna e Lady Gaga sfoggiano un bellissimo gioiello al setto, come una buona parte dei PR degli showroom di moda -da questi ultimi spesso abbinato a vistosa barba e/o vistoso occhiale. A 19/20 anni si hanno già le braccia piene, a 22 come minimo anche la schiena. Rigorosamente a caso, rigorosamente senza una logica. E molto spesso senza gusto.
Ok, credo che l’intera faccenda ci sia un po’ sfuggita di mano.
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Fin dall’inizio della sua storia l’uomo sente il bisogno di modificare il proprio aspetto, di ornarsi e deformarsi, per i più svariati motivi (n.d.a.: come per molte parole che utilizzerò a seguire, voglio precisare che nell’accezione originale del termine non è presente alcun carattere giudicativo: se culturalmente intendiamo termini come “deformazione” o “mutilazione” con accezione prettamente negativa, è solo perché nella nostra storia sono associati per la grande maggioranza ad eventi negativi, torture o handicap, o comunque come forma di lesione imposta. Sia anche chiarito che ogni tipologia di modificazione corporea che andrò a trattare si riferisce ad individui consenzienti e consapevoli).
La modificazione corporea in sé è la prova tangibile e fisica di un rito di passaggio: il farlo ha da sempre rappresentato un’appartenenza, un linguaggio che poteva palesare a chi vi avesse accesso una nostra caratteristica o traguardo raggiunto, ma è altresì riconducibile a una dimostrazione permanente del superamento del processo di estraneazione dal dolore, di ricerca del controllo di sé, di sperimentazione dei propri limiti.
[PIPPONE ALERT: da qui in avanti parte un breve ex cursus (evidenziato dal corsivo) della cultura del tatù, per cui se vi scoccia rileggere per l’ennesima volta di Yakuza e Mahori saltate pure a pié pari].
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Già dal Neolitico, i primitivi usavano decorarsi il corpo con tatuaggi. Coevamente, in Africa le tribù erano solite adornarsi il volto con dischi labiali e dilatazioni alle orecchie. In Egitto sono state rinvenute mummie ricoperte di tatuaggi e scarificazioni. I sacerdoti aztechi si foravano guance e labbra, e si incidevano la lingua. Le donne della cultura Maya erano solite indossare piercing a naso, orecchie, ombelico, lingua e organi genitali.
I Maori si tatuavano con una tecnica più simile alla moderna scarificazione: asportavano la pelle con dei piccoli scalpelli fatti di osso di albatros, chiamati “Uhi“. Il tatuaggio così ottenuto era denominato “Moko“, e aveva numerosi significati. Riceverlo era uno dei riti che accompagnava l’ingresso nell’età adulta, e dichiarava inoltre l’appartenenza a un rango sociale elevato. Aveva anche dichiaratamente un intento estetico.
In Giappone, il tatuaggio venne reintrodotto come metodo di identificazione dei criminali nel VII secolo. Verrà poi proibito, e a farlo tornare in auge sarà solo la Yakuza, a metà del Novecento. I suoi membri sono obbligati a tatuarsi, il loro copro si ricoprirà di “Horimono” fino ai polsi e alle caviglie, per dimostrare la loro affezione. Oltre a questo rituale, l’iniziato al clan si sottoporrà anche a un’altra forma di automutilazione: è la cerimonia denominata “Yubitsuma“, in cui l’affiliato si asporta l’ultima falange del mignolo e la consegna al maestro.
I marinai si tatuavano come buon auspicio per il viaggio, i carcerati in base ai crimini commessi o agli anni da scontare, o a mille altri codici interni d’appartenenza a gruppi, etnie o ideologie.
Vi è sempre stato ovviamente anche chi si tatuava per ragioni estetiche, o persino lavorative: all’inizio del novecento erano molto diffusi i cosiddetti “freak show“, esposizione di “rarità biologiche”, in cui, fra il nano e la donna barbuta, facevano bella mostra di sé individui splendidamente ricoperti di tatuaggi. All’epoca erano considerati alla stregua di un unicorno, o giù di lì (l’immagine di copertina dell’articolo ritrae la bellissima Betty Broadbent, famosa performer e poi tatuatrice d’inizio ‘900). L’intento era indubbiamente meno celebrativo, e si avvicinava di più alla body modification intesa come trasformazione di sé in una versione ai propri occhi migliorata. Ma comunque permeata di una valenza lontana anni luce dalla situazione attuale.
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Tornando ad oggi, ponendo che come sempre il mio primo interrogativo è quanto sia giusto pormi interrogativi con intento semi giudicatorio sul comportamento altrui, mi viene da domandarmi anche altro: quanto davvero si sta perdendo dell’importanza simbolica e rituale del tatuaggio? Ha davvero un valore più profondo, o trovargli una rilevanza è solo un mio espediente per elevare un’attività quasi banale, in realtà più simile a una seduta dal parrucchiere che a un rituale magico? L’oggettivazione come sempre è difficile, o per meglio dire impossibile. Posso darvi la mia parzialissima versione dei fatti.
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La modificazione del sé, che essa avvenga tramite chirurgia estetica, body piercing, tatuaggi, scarificazione, impianti o altro, dovrebbe essere un’esperienza che a prescindere va vissuta in prima persona non solo per i risultati, ma per il significato stesso di ciò che si sta facendo, o per meglio dire subendo. Ed è triste vedere tatuaggi brutti, improvvisati, con la fretta di coprirsi le braccia, senza cultura o coscienza: non che si debba cercare chissà che recondito in un disegno colorato sulla pelle, ma che perlomeno che il viverlo sia fatto con il piacere di farlo nel momento in cui lo si fa, e affidandosi a chi questo mestiere lo sa fare. E magari anche ragionando un pochino –poco- sulla propria cultura, e sul significato di ciò che ci si tatua ha per gli altri. L’assurdo è che per risparmiare o per ignoranza, ci si copre di colore a caso, magari nel mentre cazzeggiando sui Social o facendosi selfie da condividere. #tattooedgirl #tattoo #inkedgirl #inkedguy #inkedcazzi.
Invece che concentrarsi sul dolore, sul superamento dello stesso, sul rapporto che si ha col proprio corpo e sulla conoscenza che si ha dello stesso. Tatuarsi con l’anestetico è come buttarsi con il paracadute dopo aver assunto un anti adrenalinico: potrai avere bei video e belle foto, ma quello che non avrai sarà la sensazione di aver vissuto quell’esperienza. Il dolore e il piacere sono due lati della stessa medaglia, sono le sensazioni che più ci fanno sentire vivi: è squallido leggere ormai solo un tentativo di costruirsi un’immagine, brutto vedere ragazzetti in canottiera con gli avambracci tatuati (solo sopra però, tanto sotto l’ascella fa più male e mica se vede nelle foto), bruttissimo veder spuntare dita tatuate da maniche che nascondono braccia bianche.
In conclusione, temo che la nostra epoca televisiva che tutto svilisce stia riuscendo a trasformare un rito di passaggio e accettazione del dolore in un’ignorante dimostrazione di sé, e forse è davvero questa la cosa che in assoluto fa più male.
Cherry Kush
Si la faccenda è sfuggita di mano….
Ma quasi tutto ormai è moda! L’epoca del rituale magico è passata da un pezzo!
appunto! Non per questo bisogna però perdere il significato delle cose in favore dell’effimero….. è questione di civiltà
già, e la civiltà e i suoi valori si chiariscono anche da come la società li esternalizza……ecco, basterebbe vedere gli esempi che ci ha fatto la Kush per capire quanta merda abbiamo intorno!
che l’importanza simbolica e rituale del tatuaggio si andata persa non c’è dubbio……concordo con la mitica Cherry K.
dice bene la Kush, ovvio che qui si parla di opinioni personali, ma cazzo ci sono cose nate che hanno un senso, possiamo certamente evolverle al passo coi tempi, ma insomma…. non si può sempre mischiare la merda col cioccolato e fare finta di nulla! Scusate il francesismo… 🙂
grande B. Broadbent!!! sempre simpaticissima Cherry Kush! e concordo in pieno con lei! parola di un tatuatore!
ormai tutto è un hastag piu’ che altro….fra un po’ , sono sicuro, arriveremo a tatuarci direttamente gli hastag … saranno i nuovo “aforismi” , le nuove frasi della vita da marchiare a pelle …
e allora sarà la fine
ho l’impressione che la Kush sia tatuatissima! 🙂 😀 😉
il pippone alert di Cherry ci fa capire quanto siamo ormai lontano da ogni simbolo di significato …. ed è per tutto cosi’
Concordo in todo
La Kush ha tutta la mia stima….chi si tatua il nome della ragazza/o fa quasi pena…perche’ non sa quello che fa
^-^
E per fortuna che non hanno ancora trovato il modo di fare tatuaggi indolore. è rimasto l’unico deterrente dal far tatuare anche i bambini delle elementari. Il ricordo dell’esperienza fatta e del dolore provato deve rimanere più a lungo dell’inchiostro. P.s. #inkedcazzi diventa ufficialmente il mio ashtag preferito