Se siete fan dei My Bloody Valentine, avrete già sentito tutte le polemiche nate intorno (e non solo) al concerto e sapete tutto quello che c’è da sapere. Quindi posso anche perdermi in chiacchiere e dilungarmi in una premessa/spiegone su come è andata la serata per me. Se non lo siete, a maggior ragione lo faccio.
I My Bloody Valentine sono il gruppo preferito del mio ragazzo. La prima volta che l’ho visto senza maglietta (e qui mi fermo..) ho notato tra tutti i tatuaggi la scritta “Loveless”, che, per chi non lo sapesse, è il titolo dell’album del 1991, considerato una pietra miliare nel panorama musicale.
Adesso, a leggerlo, sembra una cosa da quattordicenne con la posa del ragazzo triste, ma in realtà è veramente fico. E comunque ha raggiunto lo scopo: ci siamo messi insieme, così adesso sembriamo cretini in due.
Non solo, ma il concerto si svolgeva all’Orion, un locale che chi è di Ciampino conosce molto bene. Ex discoteca tra gli anni ’80-’90, oggi si è dato una ripulita e ospita eventi di un certo livello. Il posto si trova esattamente di fronte a un complesso di edifici, dove io e il mio lui ci siamo conosciuti per la prima volta, io bambina di otto/nove anni, lui ragazzino di tredici. Sembra che da allora non ci siamo più separati, in realtà ci siamo persi più e più volte di vista, scoprendoci innamorati a trent’anni passati.
Ecco. Tutto questo preambolo per dire con quale stato d’animo accolgo un gruppo che considero il suggello della mia storia d’amore. O forse del fatto che aver seguito “Grey’s Anatomy“ per tutte le nove stagioni ha lasciato un brutto segno sulla mia psiche.
Ma torniamo a noi. La serata, con grande sorpresa, comincia puntuale, tempo di prendere una birra e posizionarmi in una zona strategica che i My Bloody Valentine entrano. E tutto va esattamente come dovrebbe andare.
La band irlandese regala lo show che mi aspettavo: guardano per terra come lo shoegaze comanda, alle loro spalle si alzano muri di amplificatori e tizi volenterosi passano strumenti a ogni canzone.
Il repertorio attinge in egual misura ai tre album più qualche traccia dagli Ep, riuscendo a ripercorrere la carriera stilistica del gruppo capitanato da Kevin Shields.
Si parte con “I only said“ e “When you sleep“ (che cominciano a scaldare l’atmosfera) per passare tra la più brutale “Nothing much to lose“ e la quasi sognante “To here knows when“. Il concerto viene concluso da quasi un quarto d’ora di “Youmade me realise“, portata a un’esasperazione di suoni che colpiscono il pubblico come una scarica di pallottole.
Questo è quanto. Poco importa se la scaletta è stata ridotta di qualche canzone rispetto a quella presentata all’Estragon di Bologna, a causa di motivi tecnici. Poco importa se per quegli stessi motivi, la voce di Bilinda Butcher era appena percettibile e quella di Shields inesistente.
Il coro di “non si sentono le voci” e “fonico fai qualcosa”, che è andato avanti per tutto il tempo, è stato ridicolo. Non si va a un concerto dei My Bloody Valentine sperando di capire le parole, con i tappi per le orecchie perché “fanno rumore” e poi avanzare pure delle critiche!
I My Bloody Valentine sono rumore, frastuono e sperimentazione. Chi ha tenuto le mani a coppa per proteggere i timpani da -boh?– un’emorragia interna, non ha colto l’intento artistico di un gruppo che ha segnato un genere e probabilmente, o si è trovato bendato, sequestrato e liberato nel bel mezzo dell’Orion, oppure era lì perché bisognava esserci e dire in giro “io c’ero”.
A più di vent’anni da Loveless, con i cinque componenti in grande forma nonostante il tempo (sì perché diciamocelo, un po’ di paura che arrivassero con la bombola dell’ossigeno c’era), anche ‘sti cazzi che non si sente un tubo. Non è la serata per voce e chitarra alla sagra della polpetta al sugo.
È stato un buon concerto, io sono riuscita a vedere una band che allora ero troppo piccola, mentre oggi mi godo nella sua –forse- irripetibilità e ho pure avuto la mia serata romantica, da trenta(e passa)enne che ci sente ancora bene.
Agnese Iannone