.«Nel protestare contro una guerra, possiamo credere di essere una persona pacifica, un vero rappresentante della pace, ma questa nostra presunzione non sempre corrisponde alla realtà. Osservando in profondità ci accorgiamo che le radici della guerra sono presenti nel nostro stile di vita privo di consapevolezza».
Thich Nhat Hanh
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..Superata una curva arrivo a destinazione. L’ospedale pediatrico, bianco immacolato, sembra un’oasi di pace nella polverosa città natale di Gesù Cristo. La suora che mi aspetta lavora da ormai sette anni in Palestina, dedicando la sua vita ai bambini. La missione del “Caritas Baby Hospital“, unico nel suo genere in Palestina, nasce nel 1952, con l’obbiettivo di portare un aiuto concreto alle famiglie bisognose di cure pediatriche. Da ormai più di 60 anni la struttura è un faro di speranza nel deserto delle istituzioni palestinesi, spesso corrotte e mal organizzate. A 200 metri, verso Gerusalemme il gate di ingresso nei territori, a 500 metri verso la città di Betlemme il campo profughi. Incastonato in due realtà così significative sorge l’edificio bianco. L’incontro con suor Cristina, fissato per le 16, si rivela una piacevole chiacchierata sui progressi fatti, sugli obbiettivi futuri della struttura ed altre “curiosità” di cui è stata testimone in questi anni. «Era sera, circa le 21, quando ci siamo incamminati per tornare dal centro di Betlemme al Caritas Center. Non ci avevamo fatto molto caso, ma ad un certo punto, a poche centinaia di metri dall’ospedale, abbiamo visto al lavoro operai che stavano ereggendo il muro di divisione cittadina con relativa torretta di controllo israeliana. La mattina appena svegli il lavoro era completatato ed era possibile vedere chiaramente dalle finestre della struttura ospedaliera l’opera ‘architettonica’». Le parole di suor Cristina si riferiscono ad uno dei tanti muri, in questo caso strateggico per la vicinanza al campo profughi, eretti all’interno dei territori. «La scelta dell’orario di lavoro, la notte, non è casuale. Molti degli operai impiegati ad erigere i muri sono arabi/palestinesi e non vogliono farsi riconoscere, un po’ per paura un po’ per vergogna». Sposto la conversazione sul Dheisheh, il campo profughi vicino, una vera e propria pentola a pressione (non vi immaginate una tendopoli, ma case in muratura). All’interno di quei 0,3 chilometri quadrati hanno trovato dimora palestinesi di diversa nazionalità: siriani, libanesi e giordani. La situazione all’interno non è delle più calme, non di rado capita che la rabbia dei residenti sfoci in “proteste” violente che coinvolgono qualunque persona vaghi per strada. «Al calar del sole escono dalle abitazioni muniti di kalashnikov e molotov, dando fuoco e sparando alla ceca su qualsiasi cosa incontrino: case, auto, pali della luce…», le parole di Cristina, testimone diretta degli eventi, raccontano la rabbia e la furia di una generazione successiva a quella sconfitta della prima guerra arabo-israeliana. In quel momento, nella mia testa, una vocina si chiede se giustificare quella rabbia non equivalga a chiedere obbiettività in una guerra. I danni materiali e talvolta fisici coinvolgono persone nella loro stessa situazione, palestinesi la cui unica colpa è abitare nelle vicinanze dell’inferno.
Davide Lemmi
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.. > Part. 1: “La seducente attrazione della guerra”
> Part. 2: “Le conseguenze accettabili della morte”
incredibile…incredibile che laggiù siano ancora in quelle condizioni
se giustificare quella rabbia non equivalga a chiedere obbiettività in una guerra….
ecco…ecco… 🙁
splendidi post che ci portano sul posto,sui fatti,su cosa si vive davvero in quei territori martoriati…per non dimenticare,per fare qualcosa
Grazie Uki e Davide Lemmi
Storie di ordinarie follie…strascichi della guerra….un andazzo che di questo passo non finirà mai…e i bambini ancora vittime innocenti
Complimenti Lemmi
Ma qui si continuano ad innalzare MURI!!!
auguro di proseguire ancora a queste organizzazioni umanitarie,c’è tanto bisogno di loro
Proprio oggi su tutti i mezzi di informazione compare la notizia dell’attentato alla sinagoga di Gerusalemme e la richiesta di un’altra intifada (sarebbe la terza) da parte di esponenti di Hamas che – tra l’altro – hanno rivendicato l’attacco ai fedeli. Strano modo di concepire un luogo religioso, ma in Palestina sembrerebbe che tutto sia diverso. Forse la “spoliticizzazione” e l’aumento dell’importanza della religione hanno tolto peso, per alcuni, alla formazione di uno Stato palestinese, rivolgendo i propri interessi alla creazione di uno “Stato” confessionale.
Concordo. Nel senso che apparentemente il rischio è questo, più di ogni altra cosa per le masse..poi in realtà dietro a tutto credo rimanga sempre uno scopo politico ben preciso, lo stesso che smuove da sempre questa guerra (e che appunto si regge grazie all’influenza dogmatica di uno stato confessionale).