Vi proponiamo un’interessante intervista fatta ad Amaury Cambuzat, leader degli Ulan Bator, musicista raffinato di origine francese, che ha scelto l’Italia come posto dove esprimere la propria musica dopo aver attivamente partecipato al periodo nostrano degli anni ’90, suonando ad esempio in apertura di un certo “Tabula Rasa Elettrificata Tour”…
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– Perché da francese hai scelto l’Italia per vivere e per fare musica? Da noi molti artisti emergenti si lamentano della scarsa apertura mentale del nostro Paese..
Cosa puoi dirci inoltre di questo tuo Tour italiano?
Mi sono ritrovato alla fine degli anni 90 grazie al Consorzio Produttori Indipendenti a suonare spesso in Italia. Prima in apertura ai CSI (Tabula Rasa Elettrificata tour) e poi, con le mie proprie ali. C’era una grande voglia di novità, qui in Italia, nella seconda meta degli anni 90. La mia gioventù voleva vivere l’Europa, non ne aveva paura. Il publico era curioso e numeroso, c’era spazio per il divertimento. L’Italia era un paese aperto verso le proposte musicali estere, dopodiché le cose sono parecchio cambiate, ma non solo in Italia.
Stiamo vivendo un declino del mondo occidentale ma non lo vogliamo ammettere. Molti in Europa pensano che bisogna chiudere le frontiere quando in realtà è proprio il contrario che bisognerebbe fare per poter portare aria nuova: aprirsi ad altre culture, rimettere la cultura al centro della vita insieme al rispetto per la natura. Sono i dischi, i libri, i musei, il cinema, la fotografia, i viaggi… che permettono di avere una maggior apertura mentale.
L’Italia è stata vittima per troppi anni di proposte di divertimento di massa assai triste come la TV di Mediaset, il calcio e la Chiesa… quando invece c’è tutt’altro al livello culturale che il mondo vi invidia.
Per concludere rispondendo a la tua primissima domanda, non ho scelto l’Italia ma l’Europa. Non riesco ancora ad accettare un Europa così divisa come lo è oggi. Sognavo invece ad un Europa multiculturale. E’ da quando ho 15 anni che mi considero un cittadino europeo e non semplicemente francese.
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– La tua musica è sperimentale, da sempre, anche se ultimamente hai proposto molti brani storici in chiave acustica. Ci puoi parlare delle tue origini musicali e del perché hai deciso di provare nuove atmosfere acustiche?
Per me la sperimentazione non è uno genere musicale. Suonare da solo in acustico è sicuramente il mio modo più spinto di mettermi alla prova, di sperimentare. Ho avuto fin da piccolo una formazione classica. Ho studiato il pianoforte al conservatorio quindi la chitarra non è il mio strumento, diciamo. Questo ha fatto sì che ho dovuto imparare a suonarla da solo e quindi, di sperimentare per arrivare a trovare un mio proprio stile. Da adolescente vedevo la chitarra come un’arma comoda da portarci sempre dietro, un fucile per andare a diffondere le proprie idee. Il pianoforte sarebbe stato come spostarsi con un carro armato, tropo ingombrante!
Oggi vedo la chiatarra acustica come un membro in più, un prolungamento del mio corpo. La cosa che mi interessa non è la tecnica ma usare gli strumenti come se fossero parte di me, come la mia voce. La parola sperimentazione diventa allora qualcosa che fa parte di una percezione che abbiamo rispetto a come si è formato l’orecchio. In realtà sperimentare significa semplicemente provare strade nuove..
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– Hai sempre cercato di sostenere la tua idea di musica tramite mezzi visivi. Puoi spiegarci cosa motiva questa scelta e cosa vorresti trasmettere?
Mi piace l’idea del viaggio… che la gente per un attimo possa perdere la nozione del tempo. A questo serve l’ “arte” in generale, a dimenticarsi per un attimo di quello che ci circonda. Nel mio caso, se aggiungo delle immagini scelte alla mia musica, questo aiuta a creare al meglio il mio universo che voglio condividere.
Un altro fattore importante è che sono cresciuto di più in mezzo ai films che in mezzo alla musica. I miei genitori sono grandi amanti del cinema, e quindi mi sono avvicinato alla musica per prima tramite le colonne sonore. Penso subito ad “Arancia Meccanica” (Wendy Carlos), “Barry Lyndon” OST, “C’era una volta…” (Enio Morricone), “La Scoumoune” (François de Roubais), “Cannabis” (Serge Gainsbourg), “2001…” (Ligeti), è tante altre.
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– Te sei da sempre un estimatore del suono puro, analogico. Come ti rapporti a tutte le modernità di oggi e alla registrazione e Vst digitali?
Ti dirò, amo l’analogico quanto il digitale. Il primo è costoso, il secondo è molto intuitivo e comodo.
Quando ho iniziato esisteva principalmente ancora l’analogico. C’era la possibilità di registrare a casa su quattro piste a cassette ma il risultato era difficilmente concludente. C’era troppo fruscio. Facevamo i demo con il quattro piste. Niente di più. Dopodiché, abbiamo avuto la fortuna di avere in prestito un otto tracce a bobine 1/4 pollice, un Tascam 388. Con quello abbiamo registrato i due primi dischi Ulan Bator (che in Italia corrisponde alla compilation uscita in Cd per il CPI: “Polaire”).
È soltanto con l’album “Nouvel Air” nel 2002 che abbiamo registrato per la prima volta un disco interamente in digital, con “ProTools”. Ho fatto questa scelta all’epoca sapendo che andavo poi a missare l’album con Robin Guthrie dei Cocteau Twins… che era un pioniere ma anche uno dei primi tifosi dei softwares come “Cubase”.
Più tardi, ho capito che la registrazione digitale, il supporto Compact-Disc erano le cose più trasparenti e fedeli che esistono per registrare e riprodurre i suoni.
La registrazione su bobine con uso di Dbx rappresenta invece una saturazione del suono al quale ero abituato e che mi piace tutt’ora. Di certo non si parlava di suono puro neanche prima del digitale.
È sempre un discorso di abituare l’orecchio. A diciotto anni ho comprato il mio primo Cd (“Raw Power” dei Stooges) ed è stato uno brutto shock! Ero cosi abituato ad ascoltare i miei vinili che non capivo cosa stava succedendo. Il suono era freddissimo, senza anima. Oggi, con il ritorno del vinile, ho dovuto abituarmi di nuovo a cambiare sopporto per i miei ascolti.
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– Hai avuto una band storica, hai avuto un esordio da solista. Se potessi realizzare in questo istante un desiderio riguardo la tua carriera, uno qualsiasi, o se potessi attuare una qualche tua nuova ‘forma di espressione’, quale vorresti che fosse?
Tanti dei mie sogni artistici li ho realizzati. Si tratta spesso di un sogno alla volta. Ne realizzo uno e poi ubito un altro. Vivo molto alla giornata. Non faccio tanti piani sul lungo termine. Vedo la vita come un’avventura; mi piacciono le sorprese.
Quello che voglio è continuare a cercare di andare a suonare in posti dove non sono mai stato. Incontrare altre culture, nuove persone… Ho sempre pensato che suonare dal vivo, girare con un progetto musicale serviva a quello. Detto ciò, mi mancano ancora parecchi posti da scoprire. Meglio così!
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– Parlando di nuove influenze, quale è un artista emergente che stai seguendo con maggiore attenzione?
Mi verrebbe da citarti gruppi che non hanno ancora fatto il botto ma che molto spesso suonano tutti da ormai più di 15 anni… Mi considero anche io come un’artista emergente, visto che non ho mai incontrato un grosso successo.
Il concetto di artista è cambiato. L’arte nella musica non è più al centro, è diventato commercio puro… vendersi!
Detto ciò, faccio tanta fatica a vederci chiaro in mezzo a questo marasma. Troppo marketing per poche novità creative…
Mi vergogno a dirlo ma devo ammettere che la maggior parte dei dischi che ascolto (e sono tanti!) sono album che hanno già qualche anno, pochissima roba nuova.
Matteo Madafferi
> A. Cambuzat suonerà venerdì al Punkrazio di Pomezia: EVENTO FACEBOOK
personaggio molto interessante non lo conoscevo. grazie madafferi,intervista molto bella
importante pagina di storia, tra quelle piu’ autentiche ….
HO UN RICORDO VAGO DEGLI ULAN BATOR. QUESTA INTERVISTA PERO’ CONFERMA UN AUTENTICO ARTISTA,VERO A SE STESSO.SARA’ IL CASO DI RITROVARE QUESTA BELLA MUSICA
interessante la testimonianza del passaggio dall’ analogico al digitale .un passaggio dovuto alla nostra generazione. e comunque adoro questo approccio vintage aperto al pero’ al presente o al fututo.
alla fine i suoi pezzi sono davvero emozionanti,ed e’ questo cio’ che conta!
complimenti Matteo, bellissima intervista
Grazie per aver letto