Ultimavera: ai caduti in bicicletta

In ogni testa c’è una contrada della memoria dedicata alla prima giovinezza, contrada che per chi è cresciuto in provincia si arricchisce di colori incandescenti incastonati fra le grandi distanze e la stasi del tempo

«…io nei pomeriggi mi arrendevo al sole
e mi nascondevo dietro un albero di gomma
c’era un elettrogeno bagnato dalla nafta
che con il rumore mi copriva le parole
di quella canzone che spingeva quella giostra
oggi ancora oggi mi ricordo le parole
oggi ancora oggi le persone in festa
oggi se la cantano mi sento male…»

 

Mentre questi ultimi diventavano gli anni dei ‘Baustelle’ e de ‘Il Teatro degli Orrori’, quali nuovi rappresentanti della gavetta che si concretizzava in contratti e attenzione nazionale, in provincia di Frosinone un gruppo di artigiani del pop dal nome “Ultimavera” dava alle stampe “Ai caduti in bicicletta”, un disco eccellente di cui si è parlato troppo poco. Un album capace di brillare lontano dalla rabbia volgare che ha caratterizzato questo tempo, per la bellezza e la semplicità degli arrangiamenti mai sopra le righe ma soprattutto per l’inquietudine poetica dei testi.

 

Brani del disco:

Carnevale nefasto: Nella corsa disperata e senza fine che attraversa il carnevale allucinato descritto da questo brano è possibile incontrare per intero, come nel migliore Arbasino, lo scibile umano.

Via Roma, 68: Passano i ricordi in rassegna, le immagini indelebili dell’infanzia, come per diventare il termine di paragone di un presente scialbo, privo d’ogni bellezza.

Agosto ’87: Se siamo diventati quello che siamo è anche grazie alla felicità triste della televisione che negli anni 80  ha formato il nostro immaginario di ragazzi.

Din! Don!: C’è stato un tempo in cui lo spazio antistante le chiese di campagna come in quelle dei piccoli paesi, rappresentava lo spazio naturale dell’incontro, del gioco del calcio, delle corse sfrenate fra un’ora di catechismo e una messa, senza soluzione di continuità.

Settembre: Esiste una malattia che potrebbe chiamarsi Settembre, una linea di confine temporale disposta alla fine di ogni estate che prevede, interrompendo le scorribande estive, il  ritorno a scuola. In alcuni di noi questo male è  stato più forte, soprattutto in quelli che avvertivano in essa il presagio della catena di montaggio. Forse musicalmente un po’ scontata.

Atoni d’ego: Un inno in forma di filastrocca a quella forza che opera incessante nutrendosi della vita come ne fosse l’imprescindibile ombra. Sicuramente la più radiofonica.

Racconto d’autunno: Piccola favola noir. Da ascoltare per la qualità della sua cifra stilistica.

Spostamenti di massa: Ferma a metà fra il romanzo ed il saggio di costume, questa canzone descrive bene l’incontro dell’individuo consapevole con il presente occidentale. Malessere e viole.

Stramonia: Il cielo diventa mito, il mito diventa favola, la favola diventa realtà, la realtà diventa  ispirazione, l’ispirazione una canzone. Come non vederla levarsi e scomparire simile alla luna.

L’espansionismo dei pidocchi: Lasciare tutto per disintegrarsi nel mondo di una stazione ferroviaria, per scomparire in una chiesa, per dissolversi nel quotidiano, per scomparire nella natura nostra e del mondo. Fortunatamente i pidocchi come la fantasia prolificano ovunque.

E la rugiada divenne un pianto: Ogni paradiso che si rispetti prevede al suo interno il male.

Traccia Fantasma: Più di tutto, un omaggio ai Massimo Volume.

 

In ogni testa c’è una contrada della memoria dedicata alla prima giovinezza, contrada che per chi è cresciuto in provincia si arricchisce di colori incandescenti incastonati fra le grandi distanze e la stasi del tempo. Un posto attraversato da una fila di rose sulle quali lasciare il primo sangue, non visto per via della fioritura. Uno spazio dove cacciare le lucertole annidate fra le prime crepe del cuore, quando per eclissare il sole bastava un pallone fermo fra i rami.

 

«…prima che il sole bruci in cielo sarò sconfitta dal mio ego
poi dilaniata dal nemico e fecondata dalla luce
ieri ad esempio sono morta prima che fosse mezzogiorno
come in un vaso una cicuta cieca come in un vaso una spremuta di veleno…»

 

Piero Maironi

 


P.S. – A te. Alla bellezza tanto antica che ho potuto rubare.
https://myspace.com/ultimavera

http://www.facebook.com/ultimavera

 

Share Button
Written By
More from Piero Maironi

Padania: L’isola che non c’è

Una metafora regionale per rivelare la stasi di una nazione e di...
Read More

10 Comments

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.