Sul Maclot Express non ci torno più. Digrignavo i denti dal freddo, i molari secchi di carie ticchettavano sugli incisivi smussati, potevo sentirli battere. Nella cabina del vagone in penombra, la luce della luna filtrava dal finestrino sigillato. Nessuno degli altri viaggiatori avrebbe potuto aprire gli occhi facilmente, sonnecchiavano in trance col capo gettato inerme sulle spalle. Non c’era più ossigeno e l’aria era divenuta irrespirabile, così gettai la mia volontà nel precipizio del nulla, senza svegliare nessuno raggiunsi il corridoio. Le gambe si erano addormentate e il sangue faticava a rimettersi in circolo. Avanti e indietro i vagoni non sarebbero finiti mai, scambiai due chiacchiere con l’uomo – 35 anni portati molto male – che sdraiato contro la porta del bagno stava imbevendo una sigaretta d’olio verde scuro – «La cena è quasi pronta marmocchio sigh… questa la offre la fottuta Maclot Entertainment Express, prego si accomodi pure».
Fumammo insieme scambiandoci i convenevoli di circostanza – «Qual è la sua destinazione signore… questi bagni sono sempre guasti… non mi dica che il treno è un’altra volta in ritardo» – così via finché entrambi divenimmo talmente felici da badare soltanto ai nostri pensieri.
Avevo deciso di salire sul treno spinto da un impulso oscuro, recondito, ma quanto mai ancestrale e radicato nel mio spirito schiantato contro la parete del mio cervello a causa della depressione post-estiva. In quel periodo mi annoiavo in fretta e riuscivo a sopportare il protrarsi di situazioni solo per un determinato periodo scaduto il quale mollavo la rotta per seguire una nuova stella. Avevo già lavorato in una pizzeria di Tuscaloosa – Alabama, dentro una fabbrica di fuochi d’artificio a Waco – Texas, ad una pompa di benzina nei dintorni sperduti di Sandy – Utah, sfracellandomi abbondantemente le scatole. Nell’ultimo periodo mi trovavo a espletare la funzione sociale di coniuge e venditore di polizze assicurative porta a porta a Kansas City-Oklahoma, quando specchiandomi di sfuggita dentro una vetrina di un negozio chiuso vidi che la storia non proseguiva per nulla bene. Fui l’unico a salire su quel treno quando arrivò in stazione in perfetto orario. «Il treno straordinario 5890 Maclot Express delle ore 15.40 per Chicago-Ilinois è in partenza in ritardo di 20 minuti dal binario 37. Non sono previste fermate intermedie» – i vagoni presero a muoversi lenti sui binari caldi sotto il sole di fine estate. Era un pomeriggio afoso, dal finestrino dello scompartimento contemplavo la terra liquida evaporare, le colline in lontananza fumavano, gli orizzonti in fluttuamento sotto il rollio incessante della locomotiva. Nello spasmo della calura il mio corpo si abbandonò spossato ad un sonno inquieto e cadenzato.
Il controllore mi svegliò di colpo scuotendomi la spalla. Rinvenni da un fiume torbido, camicia sudata, sensi in disordine. Gli mostrai il biglietto, lo pinzò secco, «Omaggio della compagnia» disse meccanicamente poi, porgendomi una rivista patinata e una boccetta che cordialmente posi da parte. Fuori era caduta la notte e le luci basse al neon rischiaravano il vagone silenzioso… «No she won’t take the train… no she won’t take the trip…», potevo sentire la voce possente del Boss fuoriuscire dalle cuffiette della ragazza che mi sonnecchiava accanto.
L’avventore seduto dinnanzi al posto che occupavo, occhiali da sole e capelli radi impomatati leggeva la stessa pagina del romanzo giallo comprato presso l’edicola di qualche stazione a poco prezzo senza dare il benché minimo segnale di vita, fatta eccezione per il sobbalzare ritmico del corpo cullato dai binari. Sicuramente si sarà addormentato, pensai, poco prima che il treno curvando sospinse il corpo inerte dell’uomo sulla destra, gettandolo in avanti, dove cadde sui miei piedi. Era morto, sebbene lo sguardo sotto gli occhiali da sole pareva vivo e umido, una leggera bava all’angolo della bocca, riponendolo scomposto tra le braccia sul sedile non sentii battere il polso. Avvisai i pochi avventori assonnati presenti sul vagone, qualcuno cercò invano di rianimarlo, poi giunsero due controllori dai baffi grigi e gli occhi annoiati, portarono via il corpo, non ricordo se dissero qualcosa per tranquillizzare i viaggiatori, non ricordo neanche se fossimo mai stati agitati dalla vista del corpo morto. Il treno non interruppe mai il suo viaggio proseguendo per le dritte vie ferrate del Paese. Nessuna fermata, nessun ritardo.
Ore 5.39 pm, sul vagone poca gente in veglia pacifica, piccoli granelli di polvere danzavano nella scia del tramonto rosso che infiammava l’orizzonte, la luce irrompeva dal finestrino eccitando monadi primordiali, la penombra irradiava una calma rigida, mentre il treno proseguiva la sua corsa attraverso il nulla primordiale degli States. Sfogliai la rivista patinata senza trovarvi nessun articolo degno di attenzione, il solito cicaleggio di moda e costume. La boccetta contenente un liquido verde scuro con su scritto “Ataracsia il calmante per il tuo viaggio” ed il fatto che la Maclot Express curasse i suoi viaggiatori preoccupandosi di destinare parte del suo budget annuale all’acquisto di tranquillanti infusero nel mio corpo fiacco un imbattibile desiderio di abbandono.
Decisi che era arrivata anche per me l’ora delle coccole, come tutti nel vagone, anche io aprii la boccetta e mischiai una decina di gocce alla lattina di Jim&Beam ormai caldo.
Il sonno fu deciso e avvolgente, persi completamente contatto con il mio corpo stanco e disidratato, mi ritrovai all’interno di un cortile di un palazzo persiano, scorgevo ombre muoversi contro il sole proiettate sopra teli svolazzanti, fontane zampillavano ai quattro angoli del giardino, nel mio andare onirico e ripetitivo notai la sagoma di un vecchio seduto a terra, gambe incrociate, che mi scrutava, i suoi occhi seguivano ogni mio spostamento. L’atmosfera era satura di vibrazioni , grilli, riverbero di raggi solari, radiazioni cosmiche fluttuanti dal cielo completamente cobalto, rumori di fondo che circondavano il mio agire inquieto. Ciondolante in estasi dentro quel giardino persiano guerrieri di un’età antica vegliavano il mio incedere da lontano, sguardi appuntiti come frecce, nessuna uscita dal labirinto.
Quando ripresi conoscenza era notte fonda, il treno correva sospeso nel nulla assoluto, nessuna luce, nessun contatto con il mondo esterno. Nel vagone basse luci ad illuminare il corridoio, per la prima volta avvertì un brivido di freddo percorrere le spalle e scendere per la schiena. Camminai a lungo per il corridoio prima di giungere al vagone bar. Dietro il banco bar nessuno, così presi una bottiglia di liquore e mi sedetti al tavolino. Versai nel drink una dozzina di gocce Ataracsia, mischiai e sorseggiai con calma e contemplazione, il treno attraversava una notte infinita vibrando lungo l’arteria dei binari che taglia in due il Paese.
Avevo già finito l’intera bottiglia e la boccetta di calmanti della buonanotte quando sentii un trambusto provenire dal vagone successivo, poi un urlo di donna alto e stridulo mi scoppiò nella testa. Goffo mi alzai traballando, forse avevo esagerato, ma avevo sperato in una rilassante dormita fino a destinazione. Attraversai il vagone, niente. Ancora proseguii nel buio del corridoio, nessuna luce bassa ora solo l’oscurità e il riflesso dell’ombra della notte dal finestrino. Le gocce del tranquillante avevano già fatto il giro, dallo stomaco al cervello e dal cervello alle gambe, provai debolezza e torpore, sudavo. Dovetti abbandonare tutti i buoni propositi da cavaliere senza paura, mi riposai su un sedile pieghevole lungo il corridoio, le mani non sentivano la presa, le gambe indurite, ripetevo a me stesso – ora mi alzo, altri tre secondi, ora vado, sarà successo qualc…- finché piombai nel torpore assoluto, tanto che non fui sicuro che i fatti che successero furono reali o frutto di un sogno, sentii un altro grido, ora più vicino, raggiunsi la fine del vagone, ancora un’altra porta, ne avevo contate tredici solo dal vagone bar, ma forse mi sbagliavo.
«Hey! Pss! Vieni qua», sentii una voce femminile squittire. Lei stava rannicchiata sul pavimento, con le ginocchia raccolte, il capo piegato. «Erano qua poco fa, sanno cosa facciamo, i pensieri che facciamo».. Cercai di tranquillizzarla, era scossa e tremava, mi sedetti accanto e credo ci addormentammo nell’oscurità del vagone.
Ore 5.39 am, il mattino è tintinnante e freddo, ancora qua sul Maclot Express, nessuna fermata, nessun ritardo. Avevo la schiena rotta , ma ero al posto segnato dal biglietto. Ricordai confusamente quanto successo la notte precedente. Lei seduta accanto mi spiava mentre riprendevo coscienza, aveva l’aria placida, sebbene i tratti erano consumati e gli occhi stanchi, nonostante un’ombra di trucco ormai quasi scomparsa, la bocca semiaperta, le cuffiette per la musica.. «Oh oh I gotta crush on you… tonight…», si sentiva il Boss canticchiare .
«Ciao, mi chiamo Isabella».
Parlammo come vecchi amici, nessuno dei due disse nulla riguardo quanto accaduto la notte prima, così quella storia scivolò nel fondo, forse mi ero davvero addormentato e avevo sognato tutto.
Restammo a fissarci intorno, facendo finta di non osservarci, benché sapessimo entrambi che lo stavamo facendo, poi arrivarono i soliti due controllori.. «Biglietto prego».
Mostrai loro il pezzo di carta già obliterato. Lo sguardo di Isabella si abbassò, come un bimbo che l’aveva fatta grossa, «Signorina, biglietto prego».
Lei inventò sul momento qualche scusa improbabile, «Non sono riuscita a comprarlo, avrei perso il treno… cercavo voi per farlo a bordo… la biglietteria era chiusa… ho perso il portafogli…».
Ovviamente, né io, in silenzio, né i due controllori ammuffiti credettero a una sola sua parola. «Signorina, venga con noi per favore, dobbiamo regolarizzare la sua posizione, ci segua cortesemente».
«Hey ragazzi» mi intromisi, «Non c’è bisogno di farne un problema, pago io il suo biglietto, quant’è?».
«Signore non siamo autorizzati a effettuare transazioni a bordo del treno».
«Diavolo, non vorrete buttarla fuori mentre il treno è in corsa, vi assicuro che alla prossima stazione farò una corsa alla biglietteria per acquistare il biglietto». I due si consultarono, mormorarono tra di loro, poi si congedarono, «La Maclot Express vi augura buon proseguimento signori».
Il treno continuava la sua folle corsa americana, fuori dal finestrino l’umidità e la nebbia coprivano la visuale. La luce bianca del mattino filtrava dalla coltre di nebbia grigia generando apparizioni spettrali. «Torneranno, non si scappa dalla macchina», disse tra sé la ragazza.
«Che vuoi dire?».
«Niente, cose mie , ho mal di testa, prendiamo un po’ di gocce».
Insignito da tale onorificenza, alchemico preparai per colazione le dosi mischiando il J&B rimasto con l’intero contenuto delle boccette. Dopo due minuti persi il contatto con il mio corpo e con la contingenza del treno.
«Alzati presto». Sentii la voce ruvida di Isabella e la sua mano tirarmi dalla giacca. Ero schiantato al suolo. Mi tirai su, zeppo di polvere. Tutt’intorno montagne di roccia spoglia rossastra al tramonto.
«Era questo che mormoravo, loro sono tutt’intorno, vogliono che io paghi per esser salita senza aver fatto il biglietto… Sai più o meno sei mesi fa ero triste e dormivo nella stazione di Buffalo-Wyoming, inalavo solvente per non sentire la fame e il gelo, poi una notte si fermò il treno e mi ci infilai, da allora mi danno la caccia. Solitamente sono sola, ma tu hai voluto fare il maschietto e ti ho portato nella merda. Comunque credo che vogliano solo me, per cui non preoccuparti».
La strinsi tra le spalle. «Non ho capito niente di quello che hai detto».
Lei fece la faccia di quella che ha capito che la presunzione da signorina so tutto io non serviva in questa situazione, poi serafica disse «Il Maclot Express è un mezzo di locomozione molto antico, evolutosi nel tempo, sul quale è intrappolata per sempre la setta degli Assassini con il loro capo il Vecchio della Montagna che sintetizzò la metafisica del principio primordiale da non so quale posto della Cina. Dentro il suo castello nel nord della Persia drogava i suoi seguaci per poi mandarli a massacrare gente inerme con la promessa della santità. Quando Marco Polo giunse con le sue carovane dal deserto, venne accolto in pace dalla setta degli Assassini, ma vedendo la quantità d’oro e di bellezza del loro castello, massacrò con i suoi compagni veneziani l’intera setta mentre dormiva stordita dall’oppio. Da allora i loro spiriti vagano lungo vie di congiunzione secondarie, la vendetta che ha riservato loro l’eterno, catturando gli spiriti inquieti senza radici».
Ci mettemmo in cammino, mentre il sole tramontava dietro la montagna, seguimmo una via impervia sotto il chiarore delle prime stelle, il cielo era aperto e infinito, Isabella mi precedeva e conosceva la via, io le andavo dietro con le gambe indolenzite e il fiato tirato, mi arrampicavo caprino su quel sentiero.
«Dormiremo qui dentro, è pericoloso andare in giro di notte» disse lei indicando una caverna scavata nella roccia viva. Scavò sotto un tronco di un cactus solenne, prese qualcosa dal terreno.. «Peyote, il cibo degli dei!» esclamò con gli zigomi accesi.
Ci accomodammo nella casa nella roccia come due anziani coniugi, io accesi un fuoco con la sterpaglia che raccattai in giro, lei stese una stuoia, affettò il peyote. Lo mangiammo in silenzio contemplativo, come un’ostia, era fresco, croccante e amaro. Mandai giù tutto bevendo da una bottiglia di tequila che Isabella inspiegabilmente estrasse dalla borsetta. Scrutammo la volta del cielo, mai era apparsa così alta e maestosa. Poi le stelle iniziarono a pulsare e la luce dell’infinito nascosto dal manto del cielo penetrò dai loro buchi esplodendo gioia e unità. Anche il fuoco era vibrante e sinuoso e riempiva di rosso e amore il viso di Isabella. Da lontano sentivo cattive sensazioni , ombre e uomini percorrevano gli stessi sentieri , dandoci la caccia, nitriti pazzi, urla demoniache squarciavano la notte. Vegliai inquieto controllando l’entrata della caverna, poi mi sdraiai adiacente al corpo sognante di Isabella, il battito dei nostri cuori tachicardici un solo eco nella notte, il suo respiro nel mio, un grande polmone in un angolo di galassia, l’abbracciai con sincerità come se fosse lo spirito madre sorgente del mondo, i suoi capelli erano cavi elettrici collegati a Marte, dentro i suoi occhi un lago glaciale dai gelidi ed infiniti flussi, poi abbandonai la presa e gli occhi.
Ore 5.39 pm, il Maclot Express prosegue la sua rotta verso il nulla. Nessuna fermata, nessuna stazione. Mi sveglio da un allucinazione insicura, ho la lingua secca e lo stomaco gracchia vuoto. Isabella sonnecchia abbracciata al mio braccio. Alle volte dimentico chi è e chi sono. Fuori l’orizzonte sta per scomparire nella penombra. Nessuna fermata, nessuna stazione. Mostro ai due controllori i biglietti, per lei pagherò alla prossima biglietteria.
Ingoio una dozzina di gocce, tutte d’un fiato, senza acqua. «Scusi, sa dirmi dove ci troviamo ?».
Il controllore sporgendosi verso il mio orecchio con voce bassa da annuncio ferroviario mi informò «Siamo sulla strada in viaggio per l’inferno ragazzo. La Maclot Express le augura buon proseguimento».
«She won’t take the train… she won’t take the trip…».
Giancarlo Pitaro
…quel treno per l’inferno..!!
bello, bello!
Complimenti…davvero fico!
gran bel racconto. grande Pitaro!!!!
piaciuto un sacco
Avvincente. Uno incubo schizoide scritto benissimo
un soggetto coinvolgente e suggestivo. un uso delle parole affascinante. bravissimo Pitaro, mi piacciono i suoi racconti
oddio mi sognerò di rimanere prigioniera in un treno per tutta la vita
:O
una vita d’ inferno pero’ …..
🙂
splendido racconto.
complimenti a giancarlo, fortissimo!
Quest’autore oltre ad essere bravo deve essere superdotato
Ti amo. Dove sei?
A che ti serve frequentare Fabio Santacroce se poi rimani così tamarro quando scrivi, Pitaro. Dai.