Breve ma inevitabile encomio del furbissimo Penny Duchamp

Racconto breve...

Se in quel periodo ostile, in cui tutto appariva come una linea spezzata, segmentata, a tratti nevrotica e così spigolosa e attorcigliata da sembrare un groviglio, vi poteva essere una sola, timida certezza, questa era che Penny Duchamp se la sarebbe cavata, sempre e in qualsiasi caso, comunque fosse andata. Certi baristi navigati lungo la Lorenteggio, quando le ore si facevano più tarde e abbassavano le serrande e ci lasciavano fumare dentro, si abbandonavano alle confidenze e dicevano che Duchamp era uno sgamato, uno che sapeva il fatto suo, uno di quelli che per intenderci giravano sempre con il passaporto nella tasca di dietro dei pantaloni. E fra noi modernisti del quartiere, che spendevamo le giornate giocando a freccette e fischiando alle minigonne, il suo nome era sempre fatto con riverenza, e quando passava di fronte al pub del Siluro, e ci trovava appoggiati al muro, arroganti nei nostri cappotti di montone e stivaletti a punta, ci faceva giusto un cenno col capo e tutti noi: «Ciao Penny» e abbassavamo lo sguardo. Badate bene che tutto questo non avveniva per adulazione o timore di lui, no no, solo ed esclusivamente per rispetto, e questo perchè Duchamp osava fare cose che nessuno di noialtri, nemmeno i delinquenti dal taglierino più affilato, avrebbe osato fare. Era, senza ombra di dubbio alcuna, il più grande ladro di cui il quartiere avesse memoria. Intorno alla sua figura gravitavano diverse leggende, fra i tavoli da biliardo e i banchi di pegno, e ognuna presentava tratti mitici che la rendevano impossibile e proprio per questo estremamente concreta. Dei suoi genitori, della sua infanzia, non si sapeva pressochè nulla. C’era chi sosteneva che da bambino avesse recitato nella pubblicità degli omogeneizzati Melloni, quella in cui un giovinetto dai tratti scandinavi sorrideva a trenta denti con in mano un vasetto e diceva: «Melloni, per voi e per me». Bene, c’era chi sosteneva che quel bambino fosse proprio Penny, ma quasi nessuno di noi gli si credeva. Un’altra leggenda diceva che un giorno avesse rapinato da solo un furgone pieno zeppo di pantaloni in tweed armato soltanto di un temperamatite e che avesse impaurito così tanto i due autisti a bordo che quelli si erano messi di buona leva ad aiutarlo a caricare gli scatoloni nel bagagliaio e l’avevano addirittura ringraziato. E il giorno seguente si era presentato fuori dal pub e aveva detto: «Prendete e vestitene tutti, gattoni» e da quel momento in avanti non ci fu neanche un ragazzino in quartiere che non vestisse pantaloni corti alle caviglie con la piega. Tutto questo, ci tengo a ripeterlo, aveva luogo diverso tempo fa, e quasi nulla è rimasto come allora. Io ad esempio, in quel periodo vivevo alla giornata di espedienti più o meno nobili, tiravo parecchia cocaina e osservavo la mia giovinezza colare via tra le gambe di una ragazza magra alle prede con la maturità classica, che ascoltava i Suede e si faceva chiamare Clara, una delle tante scoiattoline del quartiere di cui il vecchio Duchamp aveva colto, in anticipo sul nostro stupore, la miglior primavera. Questo Clara se l’era lasciato sfuggire un giorno, in un sospiro a mezze labbra. In poche parole, le ragazzine si passavano parola di certe sue dimensioni elefantine e prestazioni mastodontiche, e tali frivoli pettegolezzi erano bastati a destare in me insicurezze che celavo ben nascoste dietro ai ghigni arroganti e alla musica arrabbiata. Per quanto, devo ammettere che ci tengo a precisare, non covavo particolari rancori o gelosie nei suoi riguardi. Tutti noi percepivamo il suo passaggio nei letti delle nostre ragazze, sia che questo fosse avvenuto prima, durante o dopo le nostre storie con loro, come un’inevitabile fatalità, una calamità inesorabile che prima o poi sarebbe toccata a tutti, nessuno escluso – certo quelli affaccendati con sbarbe più carine erano sicuramente più esposti al rischio. Ma all’interno dell’epica di quartiere vi era una storia particolare, una vicenda dai tratti leggendari, alimentata da coloriture e pettegolezzi, che si era imposta nel calderone delle dicerie come la più straordinaria impresa di Duchamp e, dato che le circostanze mi resero partecipe, mi appresto a narrarla.
Don Vito Spatafora, temutissimo e sanguinario capo del clan degli Spatafora, famiglia egemone all’interno della mala del quartiere, aveva una figlia di nome Giada Melissa, famosa, oltre che per i biondissimi capelli, simili alla rafia pregiata, per le curve notevoli grazie alle quali era entrata a forza nell’immaginario erotico dei giovani della zona. Don Vito, un giorno, rientrato nella villa in stile neoclassico che aveva fatto costruire ai limiti del quartiere, circondata da un regale giardino, colse Duchamp nel letto della bella Giada Melissa e, prima che potesse estrarre la rivoltella e crivellarlo nel talamo – che, cuoricino!, credeva ancora illibato – questi, ancora ignudo, si lanciò dalla finestra e sparì in pochi secondi nel giardino babilonese scomparendo, inspiegabilmente, all’istante. Don Vito ordinò ai suoi sgherri che Duchamp fosse trovato immediatamente e gli fosse portato vivo.
Dal bar vedevamo passare veloci le auto dei calabresi, ma di Penny non vi era traccia: nessuno sembrava avere idea di dove si fosse nascosto. Era risaputo che il mafioso avesse una recondita passione per i cavalli: ne amava il temperamento irruento, l’eleganza, il selvaggio nitrito che facevano quando imbizzarriti. Il mito vuole che una di quelle notti, mentre le ricerche impazzavano, Penny avesse abbandonato la sua alcova segreta. Il suo scopo era rubare due cavalli purosangue e regalarli a Don Vito per placare la sua ira furibonda. Certo questi non si sarebbe scordato della grande offesa subita -un ladruncolo che ruba l’innocenza di sua figlia Giada Melissa!- soltanto per due cavalli, se non fosse che Penny aveva deciso di sottrarli alla stalla degli zingari che campeggiavano oltre i binari morti della stazione di San Cristoforo, una tribù gigantesca dedita alla criminalità e a forme arcaiche di stregoneria. Tali cavalli, oltre a essere gli animali più pregiati del circondario, erano anche i prediletti dal patriarca, Vladi Odreanu, il quale da tempo era in faida con Don Vito per la ripartizione delle tangenti dei banchi scommessa di zona e altre vicende di cui non è bene parlar ora. Recare un dono così pregiato e allo stesso tempo un tale smacco agli zingari sarebbe sicuramente valso il suo riscatto. Nell’ora più buia della notte Penny con maestria si introdusse nell’accampamento. Agile, eluse le sentinelle, e varcò la soglia della stalla. Il cane che faceva da guardia si diede ad abbaiare furiosamente e, prima che Penny riuscisse a fuggire, gli zingari lo colsero nella stalla. Lo catturarono e dopo un processo sommario decisero di metterlo in gabbia: sarebbe stato divorato dal coccodrillo allo spettacolo circense della sera dopo.

Già dall’alba del giorno successivo, in men che non si potesse dire, in quartiere si era diffusa la voce che gli zingari avevano catturato Duchamp. Tutti noi decidemmo all’unanimità di correre in suo aiuto: solo noi avremmo potuto, malgrado le nostre deboli forze, provare a salvarlo dagli zingari e dai calabresi. La nostra sola occasione poteva avere luogo la sera stessa dello spettacolo.

Irrompemmo nel tendone quella sera. Era gremito di gente, accorsa da ogni parte del quartiere per assistere alla morte di Penny Duchamp, “il più grande ladro del nostro tempo”, come recitavano le locandine affisse ovunque per le strade. Ció che ci si paró davanti una volta entrati non lasciava spazio all’immaginazione. Penny era rinchiuso in una voliera per uccelli, di grandi dimensioni, appesa al soffitto. Il pubblico rumoreggiava a gran voce, in attesa del fatidico momento. Riuscivo a scorgere tra le fila tutti i suoi rivali, che famelici ridevano di gusto, e diverse sue fiamme passate, tra cui Clara e altre sbarbine, che piangevano a dirotto. Non andammo per il sottile: entrammo sparando, cercando di provocare quanto più putiferio fosse possibile. Quelli non fecero attendere una risposta, e iniziarono a sparare in nostra direzione. Il rumore della sparatoria era assordante, e ogni istante si aveva l’impressione che spuntassero fuori dal nulla ulteriori zingari, armati fino ai denti. La folla urlava, e contribuì alla confusione che avevamo calcolato come necessaria alla buona riuscita del piano. Fuori dal tendone da circo sapevamo che vi era il furgone degli animali esotici. Renato detto lo Stuzzicadenti, appostato fuori dal circo, aprì le gabbie e le bestie, pitoni, scimpanzè e caimani, fuggirono per il campo zingaro. In un attimo, gli spettatori,in preda al panico per la sparatoria, si erano accalcati verso l’uscita e decine di scimmie, zebre, leoni e altri animali impazzavano fra le macchine parcheggiate e dentro al tendone. All’improvviso, nel caos, ci fermammo per un istante: erano arrivati anche i calabresi. Don Vito, con la rabbia e la sete di vendetta che solo un calabrese dalla pelle ruvida conosce, armato di una cannemozze per mano, si mise a sparare alla cieca, e così tutti i suoi. Lo scenario era grottesco: noi sparavamo agli zingari, che sparavano ai calabresi, che sparavano a noi, e alcuni di noi a loro, e intanto le bestie feroci scorrazzavano dentro e fuori dal tendone, e vidi Billy difendersi da uno struzzo e una scimmia rubare la pistola a un calabrese e gli zingari scappare dai coccodrilli. E Penny osservava tutto questo dall’alto, dalla voliera in cui era prigioniero. Non c’era tempo da perdere. Uno di noi, Aldo detto lo Squaletto, sparò all’uncino che agganciava la gabbia al soffitto. Questa precipitò rovinosamente a terra e il rumore fu tale che tutti smettemmo per un secondo di fare fuoco. Quando il polverone provocato dalla caduta si diradò, scorgemmo Penny a cavallo di un asino. Duchamp procedette sulla bestia per tutto il tendone, nello stupore generale. I calabresi erano immobili, interdetti, noi pure. Gli zingari invece, i quali erano straordinariamente religiosi, seppur fedeli a un cristianesimo sincretico in cui i precetti e la legge evangelica si mescolavano a leggende delle loro terre, colsero nell’immagine che si parò ai loro occhi un segno divino: Penny su un asino come Gesù alle porte di Gerusalemme, e si inginocchiarono in devozione, urlando all’unisono: “Osanna! Osanna!”
Odreanu, il loro capo, proclamò ad alta voce: «Lode a Penny Duchamp, Cristo del Lorenteggio!» e tutti pregarono commossi, compresi i calabresi, che, sbalorditi dalla situazione, posarono le pistole attendendo un cenno di Don Vito, mentre Penny passava e li benediceva con la mano. Noi approfittammo della situazione, e fuggimmo.

Nessuno seppe con precisione come finì quella vicenda. Sappiamo soltanto che se la cavò persino quella volta, e probabilmente altre ancora, anche se dalle nostre parti non si fece quasi più vedere. Eppure, ancora a distanza di diverso tempo, se in quartiere veniva fatto il nome di Penny Duchamp, noi teppisti non trattenevamo un sorriso, gli zingari si facevano il segno di croce, e le ragazze, bè, le ragazze arrossivano un poco.

Carlo Massimino

 

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