“Martin Eden” [recensione]

La libertà di essere incompreso

Una magistrale trasposizione in una Napoli lirica con scenari capaci di evocare risonanze universali.
Il Martin Eden dello scrittore Jack London si arricchisce di un altro padre, Pietro Marcello che sposta l’azione dall’America californiana nei vicoli partenopei di una città dove il protagonista è avvolto tra i bassifondi del porto e un’inquietudine poetica profonda.

La storia di un marinaio Martin (Luca Marinelli) che in un’epoca indefinita, tra memoria e immagini che riemergono da una lontananza sospesa tra passato e futuro, è capace di ascoltarsi e scoprire sempre più la sua radicale ribellione all’omologazione verso una società ipocrita che lo circonda in pieno conservatorismo.
Il marinaio, salvando un giovane, entra in contatto con una famiglia dell’alta società, conosce la sorella del ragazzo, Elena (Jessica Cressy), e se ne innamora, ma non si lascia inglobare nel comodo tradizionalismo anzi, matura la sua consapevole e implacabile rabbia anticapitalista di marinaio e proletario.

Le scene sono come dipinti impressionisti impreziosite da dialoghi asciutti che vanno oltre le parole regalandoci una storia d’amore con il mondo, tra letteratura e ricordo.
Il regista Marcello, in questa opera, riesce a farci respirare un senso poetico che non lascia mai la dimensione dell’impegno sociale.
C’è un conflitto perenne tra idealismo e materialismo e Martin si muove tra i dogmi feroci e implacabili del capitalismo che disprezza, ma allo stesso tempo, conoscendo la quotidianità dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è anche sfiduciato sulla capacità di arrivare ad un socialismo che non sia imposto dall’alto.
Il protagonista quindi è diviso a metà e cammina su un confine, proletario, poco istruito, sente il desiderio d’amore e di cultura e si muove tra individualismo anarchico e sensibilità sociale, percependo la necessità di vivere una coscienza di classe.
Martin crede nella cultura e, guidato dalla sua insanabile sensibilità, realizza il sogno di diventare scrittore. Elena, la ragazza altolocata che egli ama, diviene il suo tormento, ma anche la sua musa che lo spinge ad elevarsi affrontando enormi fatiche nonché gli ostacoli di un mondo ingiusto e spietato.
In questa dimensione Martin vive la sua crescita intellettuale e, avvicinandosi al socialismo, viene malvisto dalla famiglia di Elena, la donna che ama, ma il suo spirito critico lo avvicina al pensiero filosofico anarchico e questo gli aliena anche la sinistra.
Eden continua la sua ricerca e non si lascia catturare dalle lusinghe borghesi interessate alla commercializzazione del suo genio. Non cede al potere dell’omologazione che lo vuole entro il recinto della mediocrità. Martin ascolta la sua voce interiore e capisce che la sua esistenza è destinata alla solitudine intesa come l’incomprensione verso colui che ha capito.
Eden, oltre il successo raggiunto, guarda sempre con maggiore consapevolezza alle falsità del becero sistema borghese e questa sua capacità di vedere la pusillanimità e l’avidità del potere lo disillude spingendolo in un inarrestabile male di vivere.
Il personaggio di Luca Marinelli ci sollecita ad ascoltare il grido di aiuto di un uomo tormentato che ha compreso il suo tempo e sa di essere solo.

La sceneggiatura, scritta da Pietro Marcello con Maurizio Braucci, si snoda perfettamente in un ritmo coinvolgente dove si alterna ad un’eccellente fotografia di Alessandro Abate e Francesco Di Giacomo.

Il film non deve considerarsi un perfetto equilibrio, sarebbe un errore, proprio perché è un eccellente esperimento riuscito. Una prova d’autore che non potrà invecchiare, ma solo essere ciclicamente riscoperta e valorizzata. Luca Marinelli è potente in ogni sua scena, ma tutto il cast si muove con una squisita armonia. Ottimo il montaggio di Aline Hervé e Fabrizio Federico e giusta e centrata la musica di Marco Messina e Sacha Ricci.
Il Martin Eden, della trasposizione di Pietro Marcello, è un film originale che, senza forzature, non somiglia naturalmente a nulla. Il regista ha saputo alternare, in un gioco esemplare, memoria, poesia, impegno, tradizione popolare fino ad inserire addirittura richiami al romanzo d’appendice.

Vedendo il film ci si sente toccati dalla nostra coscienza che si riattiva di fronte ad un flusso emozionale tanto forte che mai cede alla piaggeria o alla banalità.
Martin Eden è un film importante e coraggioso, la conferma che il cinema può essere realizzato spingendosi verso sperimentazioni forti, capaci di proporre al pubblico un respiro lontano dal qualsiasi cliché ripetitivo.

Stefano Pavan

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