Cervelli a perdere

di Daniela Montella

Spiaggia. Sole di mezzogiorno. Le persone lo accolgono come una benedizione, ignorando il caldo. Sento il loro odore: carne cotta. Bruciata. Appetitosa. Carne all’olio di cocco, carne al burro di mango. Carne salata dall’acqua di mare. Alcuni cotti a puntino. Ci piace il sole di mezzogiorno.

 

L’odore ci fa venir fame. Chi può inspira a pieni polmoni. Geremia, ad esempio, non può. Ha lo sterno sfondato e gli manca il naso. Ma ha un’ottima lingua, è un buongustaio. Ci ha insegnato l’importanza di cominciare dalla testa: il cervello addolcisce il palato e rende le persone croccanti. È per i nervi tesi. Chi viene mangiato dalla testa non si rilassa a metà. È una questione di gusto, di piacere.

 

Geremia trova anche le spiagge. Noi lo seguiamo. È uno di quelli che durano di più. Sembra sempre sul punto di decomporsi ed è sempre lì a guidarci. Poi ci sono quelli nuovi che crollano subito al primo urlo. Al primo colpo.

 

Arranchiamo verso i nostri pasti. Pregustiamo l’imminente scorpacciata di cervelli. Sono il nostro pane e la nostra acqua. È come essere vivi e avere molta fame. Quando sei vivo basta mangiare perché passi. Quando invece sei come noi –quando torni– no. Non ne bastano dieci, venti, cinquanta. È un affanno continuo. Ci sono periodi terribili in cui la gente non esce di casa e noi vaghiamo per le strade immobili e deserte. C’è chi impazzisce strappandosi le viscere. Chi cerca la morte senza ritorno ad ogni costo.

 

Poi ci siamo noi che mangiamo sulle spiagge. Mangiamo tanto da non poter morire di fame durante l’inverno. Si soffre sempre. Ma sopportiamo. Siamo tornati senza sapere perché e continuiamo ad andare avanti con la stessa indifferenza. Alcuni senza un pensiero. Altri senza le parole. Altri ancora rinascono con l’odio. Io sono rinato con una razionalità mai conosciuta in vita. Non so perché sono così, non me lo sono mai chiesto. Ho sempre seguito i miei compagni, il mio istinto. Ma ho sempre pensato.

 

Una signora ci guarda storcendo il naso. Ha la pelle del colore della noce moscata e odora di plastica bruciata. Una di quelle donne impossibili da mangiare. Si comincia a masticare e si finisce soffocati dal silicone. È capitato a tanti di noi. Bisogna stare attenti. Vicino a lei c’è un bambino basso, terribilmente grasso e sporco di sabbia. I bambini non ci danno soddisfazione. Sono piccoli, molli e sfuggenti. Per di più le urla dei loro genitori sono insopportabili. I vivi sono pieni di insidie.

 

Aguzziamo le orecchie. C’è chi parla del divo, della moda o della dieta del momento -le chiacchiere sbrigative di chi ha troppa paura del silenzio. La spiaggia ne è piena. Un brusio ininterrotto ci travolge all’improvviso. Si ungono e si rigirano sui lettini senza smettere di ciarlare. Fanno a gara a chi si abbronza di più, a chi attira di più l’attenzione, a chi si diverte di più. Dovunque, un odore diffuso di panico. Che non è causato da noi. Per queste persone è imperativo mostrarsi felici a qualunque costo. Sorridono fino a farsi male. Distratti dai loro stessi pensieri e dal tentativo di ignorarli. Farebbero qualunque cosa per dimenticarsi degli altri. Si odiano tutti, in segreto. Noi lo capiamo dal loro odore, ma loro non lo sanno.

 

Il problema del sopravvivere mangiando cervelli è che non sono tutti uguali. È questa l’unica difficoltà del cacciare sulla spiaggia.

 

Non pensano, non discutono, non sognano. Le loro idee sono copie vuote di altre copie ispirate a loro volta da altre copie. Le loro idee sono nulle, le loro parole sono vuote. Il loro istinto è talmente scarso da non fuggire neanche alla nostra vista: sono come anestetizzati. Si lasciano inculcare le idee dalla televisione. Sono dipendenti da internet, il cervello bruciato dai gossip.

 

Ci voltiamo tutti verso Geremia che, sconsolato, scuote la testa e si allontana. Anche io posso sbagliare, dice. Lo capiamo e cominciamo a seguirlo. Mentre si allontana gli cade un orecchio. Lo lasciamo lì, sulla sabbia, preda facile dei cani e dei bambini curiosi.

 

È inutile mangiare persone del genere. In loro non c’è più un cervello che possa nutrirci.

di Daniela Montella

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