Medio Oriente: un popolo di profughi..

Report esistenziale dai confini del Nero Califfato

.«Ogni volta che ci arruoliamo nella crociata della guerra (da qualsiasi parte), ogni volta che crediamo di essere parte degli angeli, ogni volta che abbracciamo un sistema teologico o ideologico che si definisce la quintessenza del bene e della luce, in realtà stiamo solo scegliendo i modi in cui compiere le esecuzioni».
Chris Hedges

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  ..e ci sono loro. Ci sono i deboli, le vittime, gli innocenti. Loro sono la diretta conseguenza della guerra. Queste entità silenziose sono persone. Nei loro occhi i ricordi e gli orrori, l’ansia e la perdita, la mancanza e la morte. Profughi… uomini, donne, bambini, vecchi, arabi, curdi, ma più semplicemente esseri umani. Spesso considerati bandiere al vento al servizio delle dinamiche di potere. Suruk, sud-est della Turchia, nel 2013 era una città di 50.000 abitanti. Suruck era l’ignoto. Suruk aveva una sorella a tre chilometri di distanza, il suo nome era, è, Kobane. Tra le due il confine. Accadde un giorno che la città di Kobane venne presa d’assedio dagli uomini dell’Isis. Gli uomini dal viso nascosto del califfato nero. La guerra, silenziosamente, era arrivata. Da quel giorno oltre 400.000 persone -quelli che chiamiamo profughi- scapparono in direzione del confine Turco. Oggi Suruk conta circa mezzo milione di persone. Il governo turco ha allestito cinque campi profughi nella periferia della città.

Arrivi in città e ci sbatti il muso. Superi un posto di blocco militare e ci sei. Sono campi, ma assomigliano a prigioni. File e file di tende grigie. La recinzione li divide con l’esterno. Alcuni bambini stanno giocando nel piazzale antistante. Uomini e donne hanno allestito un mercato, che poi scopro essere basato sul baratto. La vita, incredibilmente, scorre. La vita non si è fermata. Il mondo non si è fermato. Negli occhi delle persone il retaggio di ciò hanno vissuto: non c’è terrore, ma difficilmente c’è speranza. Il futuro è morto il giorno del primo colpo di mortaio. Immaginate i camion, i singoli e le famiglie accalcate alla frontiera. Immaginate sulle loro spalle i fagotti pieni dell’indispensabile, ma vuoti di affetti. Ed ora, nei campi, si continua a vivere.

In tutto ciò noi dove siamo? Combattiamo l’Isis, ma non ci schieriamo dalla parte di chi ha bisogno. Siamo stati ricattati dalla Turchia di Erdogan che non permette aiuti a profughi di etnia curda ed abbiamo abbassato il capo. La tragedia continua. La tragedia continua quotidianamente nei campi Suruk. Centinaia di migliaia di persone sono in questo momento senza acqua corrente ed energia elettrica. Mancano medicinali, cibo e vestiari. Gli USA hanno le mani legate, la NATO fa scudo e l’ONU non conta, ancora una volta, un cazzo. Negli ultimi mesi c’è stato un miglioramento, la Turchia ha cominciato la costruzione di nuovi e moderni campi capaci di sopperire alle numerose esigenze. Tutto vero, se non fosse per le torrette, la doppia recinzione ed il filo spinato. Ecco la prigione perfetta: “umanitaria“… Troppo spesso “partiamo” per dare fuoco al mondo, troppo spesso consumiamo il carburante dell’ideologia ad inizio opera, schiacciati dalla complessa realtà dei fatti. In fondo siamo soggetti anche noi al populismo delle frasi ad effetto, dell’ignoranza e della paura per ciò che non si conosce. Intanto però in quei campi muore la speranza.

Muore la speranza… la speranza in un futuro per i bambini, la speranza nella “casa” per i genitori, la speranza del ricordo negli anziani. Uomini e donne scappati dall’orrore della guerra per cadere nelle sabbia mobili dell’inascoltato. La risposta più forte non è quella delle armi, è l’alternativa. Mostrare l’alternativa, superando i meri interessi geopolitici, per approdare alla concretezza dei fatti.

La strada tra Suruk e Kobane si riempie di camion. Alcuni curdi hanno deciso di tornare in città. Una città fantasma: scheletri di edifici, macerie e vuoto. Hanno dato la vita per la loro terra, hanno resistito ed ora nei loro occhi e nelle loro parole non la lasceranno mai più. Qualcuno, prima o poi, dovrà fare i conti con questa etnia senza terra e mai riconosciuta. Un’etnia religiosa ed atea, ma principalmente votata alla ricerca di una patria.

 Davide Lemmi

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10 Comments

  • grazie lemmi per questo post. spesso si riesce a parlare persino delle vittime civili, ma sempre troppo poco si parla dei milioni di profughi che fanno queste guerre.
    se ne parla solo poi sotto formo di immigrazione…..allora solo per strumentalizzare quel discorso per altri interessi

  • vivono tra torrette, recinzioni e filo spinato, ossia in prigione! come appunto scrive Lemmi.
    prima o poi si dovrà fare i conti con questa etnia senza terra…quei bambini cresceranno con l’odio negli occhi

  • Un ottimo avvio. Un modo duro, se vogliamo, ma efficace, per spostare l’attenzione dalle armi ai loro effetti meno conosciuti. Sono d’accordo con Norma ….con l’odio negli occhi…lo capiremo mai?

  • ..che poi non sono tutti cattivi ok, ma se pensate che loro sanno bene che tutto questo è così a causa degli Usa che non si fanno mai i fatti loro e influenzano tutta la geopolitica del medio oriente…. immaginate come arrivano questi emigrati…………….

  • grande distruttore l’uomo,forse indegno della vita.Consapevole della sua potenza,incosciente dei suoi errori.Oggi crollano ancora tutte le speranze umane sprofondando nella legalita’ della fine!

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