Le ceneri di Angela

Una storia, da un libro poi anche film, che sa raggirare le trappole del verismo e del moralismo per una sorta di eroismo tragico tra povertà e libertà

Ripensando alla mia infanzia, mi chiedo come io sia riuscito a sopravvivere. Naturalmente è stata un’infanzia infelice, sennò non ci sarebbe gusto. Ma un’infanzia infelice irlandese è peggio di un’infanzia infelice qualunque, e un’infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora.

 

Le ceneri di Angela” (titolo originale “Angela’s Ashes“) è un libro dello scrittore statunitense, di origine irlandese, Frank McCourt.

 

Limerick, 1935. Il piccolo Frank, otto anni, torna in Irlanda con la famiglia dopo una negativa esperienza a Brooklyn. Ma l’Irlanda è più dura dell’America.

La storia si dipana attraverso la narrazione del figlio più grande che racconta la sua difficile infanzia. Le memorie del ragazzo ci raccontano il troppo dolore e le troppe contraddizione a cui è costretto ad assistere: i suoi sono occhi che vedono morire di fame, stenti e malattia tre piccoli fratellini, ognuno a breve distanza di tempo; occhi che vedono un padre che dà puntualmente fondo al misero sussidio di disoccupazione nei pub della cittadina per ubriacarsi. Ma sono occhi che vedono quotidianamente anche sua madre Angela, che combatte fino all’umiliazione per proteggere i figli. Quest’ultima figura è realmente il faro per gli occhi del ragazzo: si tratta di una donna continuamente attraversata dal dolore (la morte dei figli, il marito deludente) ma sempre in grado di reagire mettendo da parte l’orgoglio e il senso di vergogna. Angela rappresenta quel contraddittorio concetto di dignità pronta a umiliarsi per poter assicurare alla propria famiglia la sopravvivenza, e poter offrire così all’ormai adolescente Frank la forza di un sogno, quello di evadere dalla piovosa Limerick per tornare negli Stati Uniti.

E proprio questa forza vitale del ragazzo è superiore a qualsiasi disgrazia, spinto dalla voglia di ricordarsi solo i momenti più belli dell’infanzia (i racconti del padre, le marachelle con i coetanei), e dalla volontà di sottrarsi ad un destino avverso. Un destino che, prima di vederlo salpare per le Americhe, gli fa vivere la fuga da casa del padre, la ‘prostituzione’ della madre (disposta a giacere con un lontano cugino pur di avere un tetto sotto la testa), la morte per consunzione della giovane Theresa, affetta da tisi e bisognosa di amore, proprio quando Frank comincia a capire cosa voglia dire innamorarsi.

La famiglia McCourt «..guarda dal basso la povertà», regredisce invece che migliorare e contro quest’immensa corrente avversa deve lottare continuamente il piccolo Frank, cercando di non farsi spazzare via da una fiumana che lo porta nella direzione opposta a quella che seguirebbe. Il piccolo Frank si da da fare, vuole capire, conoscere, farsi uomo e comportarsi da uomo. Mettere da parte i soldi per tornare in America. Ma è costretto a ricevere porte chiuse in faccia. Quelle dei gesuiti che non lo vogliono far studiare nonostante sia il suo stesso maestro a dire che il ragazzo dovrebbe. Ma per quel ragazzino così sporco e malandato, cresciuto nei vicoli di Limerick è stato negato pure di fare il chierichetto. E in mezzo a così tanto ostentato quanto scialbo cattolicesimo, Angela si rende conto che «..è proprio difficile mantenere la fede con tutta la spocchia che c’è in giro».

Il giovane Frank le prova tutte: ruba, elemosina, chiede in prestito, impara, legge, s’ammala, scopre Shakespeare, scrive lettere minatorie per conto di una vecchia usuraia, consegna carbone, telegrammi, prega, si confessa, si pente, consegna giornali e scopre che è un uomo e come sono fatte le donne. E a modo suo dà un nome a tutto questo mondo cercando di capirlo. Fa domande e come al solito gli adulti non rispondono e allora chiede ai santi, a San Francesco soprattutto (il suo preferito), e questi in un modo o nell’altro rispondono parlandogli attraverso le sue esperienze, i suoi desideri e le sue conquiste.

Frank per fermare questa discesa agli inferi non può far altro che scappare su una nave, simbolo della perdita delle radici, dell’abbandono della casa e del taglio netto con il passato. Più che le terribili condizioni di vita (assenza cronica di cibo e fame terribile, pioggia continua, freddo e morte), più che le surreali lezioni morali delle istituzioni scolastiche e religiose (prese più a educare contro gli inglesi e a favore di un ottuso nazionalismo che nel nome della tolleranza e contro la fame e la povertà), sono dunque i faticosi movimenti dei protagonisti, nella loro quotidiana velleità di sopravvivere, a rendere verosimile una condizione così estrema di miseria.

Il sogno dell’America, o meglio della statua che con la mano indica la direzione della libertà, rappresenta così il tentativo, per Frank, di invertire la rotta e ritornare a ‘casa’.

Solo di fronte alla statua della Libertà, Frank comincia a pensare ad un futuro migliore, dove finalmente «..nessuno ha i denti marci e tutti hanno un gabinetto».

 

Lo scrittore, a sessant’anni passati, ci racconta con uno stile asciutto e per niente piagnone la miseria della propria infanzia: una miseria assoluta, dickensiana, insopportabile, e pur tuttavia vissuta da lui e dai suoi fratelli con stoico fatalismo.

 

Le ceneri di Angela” si trasforma in un caso editoriale senza precedenti: sei milioni di copie vendute, venticinque lingue, un premio Pulitzer e un film omonimo firmato dall’inglese Alan Parker.

 

Grande enigma, anche: pareva sociologicamente impossibile che piacesse tanto ai lettori contemporanei (siamo nel 1996) la storia dickensiana d’un bambino povero, affamato, abitante nei luoghi più miseri di Limerick, circondato dallo squallore e dalla morte. Il film molto classico di Alan Parker fornisce forse una spiegazione del mistero: pur essendo una vasta epopea di dolore e sfortuna, non provoca tristezza nè avvilimento, anzi affascina per la vitalità, la resistenza, la speranza del bambino protagonista, per la constatazione di quanto possa essere grande la sua forza di sopportazione e di come arrivi a vincere un destino di sventura. Senza pathos, senza sadismo, con asciutto realismo e durezza, il regista allinea le sciagure dei McCourt in una  Limerick, plumbea e perennemente piovosa, in cui, in modo significativo, emergono esclusivamente tonalità in grigio-verde (ossimorica presenza di speranza e contemporaneamente negazione di essa), la morte cammina insieme all’esistenza e ne diventa una componente essenziale, imprescindibile.

 Katia Valentini

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