Mogwai @Estragon (03/2014)

Dalla data di Bologna il report dei Mogwai e del loro inarrivabile evento: tra muri sonori e ferite da lenire

Chiariamo subito una cosa, io non sono un’esperta, non lavoro per un’etichetta discografica e da me non sentirete frasi come “l’uso sapiente di arpeggi violenti”. In più nel momento in cui scrivo ho il ciclo e non ho paura a usarlo.

Io vado ai concerti con il privilegio di chi segue davvero i gruppi che recensisco e magari non ricordo i nomi di tutte le canzoni e faccio difficoltà nel definire pedissequamente il post rock, però io c’ero e c’ho le prove.

L’ho già detto che ho il ciclo?!

Ho visto per la terza o forse quarta volta nella mia vita i Mogwai dal vivo e li eleggo di nuovo tra le band che seguirei in capo al mondo.

Stavolta mi sono avventurata in quel di Bologna –all’Estragon per la precisione– dove, approfittando del weekend di mezzo, ho passato due giorni belli belli in modo assurdo, tra tigelle vino e musica.
A questo punto una seconda doverosa premessa, tanto per rendere più chiara l’idea di cosa passa nella testa di una donna in preda agli ormoni, cioè il panico. Se vi capita un concerto a Bologna, prendetevi qualche giorno per girare con calma una città che merita anche ad anni di distanza. Con un po’ di pazienza sul web si possono trovare alberghi interessanti a prezzi ragionevoli, che vi permetteranno una mini vacanza di quelle che quando torni, all’altezza di Settebagni, ti vuoi suicidare.

 

I Mogwai suonavano di domenica, quindi il sabato è stato dedicato al gioco “vediamo quante calorie può contenere il corpo umano”. La cosa sorprendente di Bologna è che –almeno nel centro storico– non sembrano esistere supermercati, ma ogni cinquanta metri c’è una piadineria che offre il prodotto migliore della città. E io e il mio ragazzo non ci siamo fatti parlare dietro.

Complici tra l’altro il cantante di una band locale punk hardcore (gli ED. Se ho sbagliato la definizione del genere musicale mi cospargerò il capo di cenere dandomi due cinghiate, ma voi intanto ascoltateli. “Both feet on the wrong side” per esempio) e la sua ragazza. I quali hanno ben pensato di continuare il gioco già menzionato con il sequel “la grande abbuffata di tigelle”.

Chiusa la parentesi Tripadvisor dei beati cavoli miei, arriviamo al giorno del concerto.

Per chi non c’è mai stato, l’Estragon è un locale dove non c’è neanche l’idea di un posto dove sedersi, non un gradino, non una mattonella rialzata, niente. Ergo, a un certo punto i trenta e passa anni si sono manifestati in tutto il loro splendore sotto forma di pugnalate alla lombare, che comunque non mi hanno impedito di assistere anche al live della band di supporto a quella scozzese.

 

Pye Corner Audio è un tizio barbuto che parla di sé usando il plurale maiestatis sul suo sito ufficiale e che si dedica a un’elettronica anche gradevole e a tratti “ballereccia”, accompagnando l’attesa di noi primi ad arrivare all’area del concerto.

 

Quando salgono i cinque di Glasgow (sei per l’occasione) si crea immediatamente il pienone. Tra l’altro la serata ha registrato il sold out e a ragione.

Fatto sta che, a meno che tu non sia alto un metro e novanta, ai concerti vige un po’ la regola del traffico sul Raccordo: qualsiasi fila tu scelga, all’improvviso si fa la coda. In maniera simile, in qualsiasi punto dell’Estragon mi spostassi, c’era sempre un gigante o qualche acconciatura molto riccia a compromettere la visione del live. Mai una volta che davanti a me avessi trovato un bambino o un cagnolino.

Ciò nonostante, ho visto abbastanza per dire che i Mogwai si presentano come al solito agghindati tra il boscaiolo del Wisconsin e un hipster del Circolo degli Artisti. Quello che mi ha lasciato un po’ interdetta è stata la cordialità con cui il chitarrista e cantante Stuart Braithwite continuava a rivolgersi al pubblico e il fatto che suonassero dandoci il viso. Durante l’ultimo concerto –un Rock in Roma del tour “Hardcore will never die, but you will“– si sono esibiti quasi sempre di spalle e come se fossero lì per caso. Questo non ha reso l’esecuzione fredda, ma anzi maestosa, come se loro fossero meri interpreti di un disegno superiore.

Quella bolognese è stata una serata degna di loro, con momenti da lasciare senza fiato, ma meno intimista, meno profonda, forse troppo breve per rendere giustizia a una produzione importante come la loro.

 

Detto ciò il concerto ha sancito per l’ennesima volta il successo di una band che da diciassette anni tira fuori qualcosa di perfettamente riconoscibile senza mai stancare o far pensare di non avere più niente da dire.

Prendiamo il live dell’Estragon: io sapevo bene cosa aspettarmi, eppure mi hanno lasciato con quella sensazione di inarrivabile, di non compreso fino in fondo. Grazie anche al gioco di luci non particolarmente raffinato ma efficace nel sottolineare i momenti salienti della serata, con il grande occhio che campeggia sulla copertina dell’ultimo album a guardarci per tutto il tempo.

E proprio dall’ultima fatica “Rave Tapes” che gli scozzesi scelgono “Heard About You Last Night” per aprire la loro esibizione, stabilendo già il ritmo della serata in un crescendo di suoni che spezzano e accolgono e di nuovo irrompono.

Questa loro capacità di creare qualcosa di imponente li rende uno dei miei gruppi preferiti. C’è la calma apparente di pezzi come “I’m Jim Morrison, I’m Dead” e “Haunted by a Freak”, in cui sembra di osservare lo scorrere di un fiume che scivola tranquillo per poi diventare più impetuoso nelle anse.

C’è la malinconia ruvida di “Blues Hour” e l’incalzare inquieto di “Remurdered”, fino alla velocità di “Mexican Gran Prix”.

E poi ci sono momenti di una bellezza quasi struggente, quando su “Mogwai Fear Satan” i toni si abbassano nella parte centrale dopo averti investito con un muro di suoni e rimane quasi solo la batteria a lenire le ferite. Il pubblico accenna un applauso pensando sia tutto lì, invece si alza di nuovo un muro e intorno è solo luce bianca e suono. Se non si conosce il gruppo, non si può spiegare la sensazione che si ha di estasi, quando dolore e piacere diventano un blocco di fronte al quale si rimane inebetiti. Anestetizzati e appagati.

Di questa serata che si conclude degnamente durante l’encore (“White Noise”, “Auto Rock”, “Batcat”), di questa vita che vale la pena di essere vissuta solo per ascoltare un’altra volta i Mogwai.

Di questa Roma a cui fare ritorno per correre a sentire brani che hanno fatto avvertire la loro mancanza, come “Helicon 1” o la colonna sonora di Les Revenants, un album scritto dalle mani di un dio.

Cari Mogwai, grazie per “Take Me Somewhere Nice”, ancora una volta.

Agnese Iannone

 

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