Un altro mito da sfatare

La "Vita è Bella" di Benigni pare essere stata la chiusura del cerchio sulla Shoa

La solita pietà per il popolo ebreo sotto le vesti della fantasia sembra non fare altro che sminuire ancor di più la terrificante macchina antisemitista del Nazismo. Molto meglio “Train de vie” di Mihăileanu allora, dove l’ironia è una vera forza creativa contro l’oppressore.

 

 

Andando a fare acquisti al Portico di Ottavia mi sono imbattuto nelle così dette “pietre d’inciampo“, dove il sostantivo “inciampo” non ha significato negativo ma indica qualcosa in cui ci si imbatte all’improvviso e che dovrebbe indurre a soffermarsi a pensare, cioè i sampietrini in ottone che l’Amministrazione capitolina sta collocando davanti alle porte d’ingresso delle case dei 1024 ebrei romani che, il 16 ottobre 1943, furono rastrellati dall’esercito tedesco per essere deportati nei campi di sterminio  ..da lì tornarono soltanto in 16, e per quale motivo l’allora papa Pio XII non mosse un dito ne’ levò la voce è ancora fonte di grandi discussioni e contrasti.

Nel vederle mi è venuto di ripensare al film di BenigniLa vita è bella” e di fare alcune considerazioni.

 

Appena comparve nelle sale cinematografiche fu tutto un sollevarsi di plauso e apprezzamenti, c’è stato anche chi dichiarò con gioia e a gran voce che finalmente qualcuno era riuscito a raccontare l’inenarrabile della Shoa senza cadere nell’orrido o nel pietistico, in pratica si affermò che era avvenuta una vera rivoluzione nel campo della comunicazione e della memoria!  Io quel film non l’ho mai amato, ho ritenuto sin da subito che, nonostante gli apprezzamenti di singole comunità ebraiche, fosse uno degli atti più infami, ambigui e condannabili che mai fosse avvenuto nella storia del cinema italiano, culminato poi con l’apoteosi dell’assegnazione dell’Oscar.

Si è trattato, ne sono ancora convinto, di una operazione mediatica il cui fine era di chiudere per sempre uno dei capitoli più scomodi ed oscuri della storia europea con un generico “tout va bien madame la marquise“, operazione facilitata dal fatto che i testimoni oculari di quello che è stata la Shoa, per motivi puramente anagrafici, stavano scomparendo e si poteva narrare quei terribili anni come più faceva comodo, senza affrontare la spinosa questione di quali fossero le basi ideologiche su cui era stato edificato l’antisemitismo nazista. Se l’argomento fosse stato trattato, la cosa di certo non sarebbe tornata di gradimento all’apparato Vaticano, visto che non si sarebbe potuto far altro che individuarle nell’antigiudaismo neotestamentario e nella patristica.  Che Benigni abbia cercato in fase di realizzazione l’approvazione del Vaticano non è fare della fantapolitica e, forse, è il caso di ricordare che la moglie di Roberto si chiama Nicoletta Braschi ed è la nipote di un alto porporato.

 

Per rendersi conto del perché si possa affermare che l’antigiudaismo del Cristianesimo, soprattutto quello delle origini, sia alla base dell’antisemitismo nazista è sufficiente prendere in esame alcuni elementi storici.

Se prima del 70 ev l’opposizione del potere imperiale romano e delle neo nate sette giudeo-cristiane nei confronti dei recalcitranti abitanti del “Regno di Giuda” era di natura strettamente politica e locale, a partire dalla distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme da parte di Tito e poi, in maniera più esplicita dopo il riconoscimento da parte di “Costantino il Grande” del Cristianesimo come religione di Stato (313 ev), si tramutò in teologico, con sconfinamenti nell’etnico razziale, andando a colpire anche gli ebrei della Diaspora.

Nei vangeli sinottici, e in seguito nella patristica, in netto contrasto con quanto veniva esposto nel “Tanach“, e sulla base dell’interpretazione data da Paolo di Tarso alla figura di Gesù il Nazzareno, veniva affermato che i tempi si erano compiuti e si era entrati nell’era messianica, una affermazione che, a meno che non si fosse riconosciuto di trovarsi in una contraddizione teologica irrisolvibile, implicava che il male, ancora presente sulla terra, dovesse avere una causa che non poteva essere altro che negli ebrei i quali, sebbene nel passato fossero stati i destinatari dei messaggi divini salvifici, in seguito, all’apparire di Gesù, non solo non avevano riconosciuto in lui il Messia ma, secondo quanto veniva tramandato, falsificando ogni nesso storico e logico, lo avevano messo anche a morte.

Questa costruzione metastorica degli avvenimenti che aveva il fine di mettere in evidenza la superiorità della teologia cristiana rispetto a quella giudaica, ha portato i Padri della Chiesa a formulare concetti e direttive in cui l’ebreo risultava essere la causa di ogni male, colpevole di deicidio e, quindi, per volontà divina, destinato alla emarginazione, principi che, all’atto pratico, nel corso dei tempi si materializzarono nell’imposizione di simboli connotativi di dispregio (il tondo, berretti colorati, ecc), impossibilità di accedere a cariche pubbliche, divieto al possesso di beni immobili e nell’obbligo di risiedere in zone delimitate dei centri abitati (i ghetti), una politica di segregazione ed annullamento che, a meno che non fosse intervenuto in qualcuno un atto di dubbia apostasia, poteva risolversi anche con l’annientamento fisico.

 

Nel film di Benigni la descrizione che ci viene data dei campi di concentramento è al limite del favolistico e la sua ipotesi di contrastare l’orrore con la fantasia è al limite dell’autolesionismo.

Con una giravolta degna del più abile degli illusionisti da avanspettacolo, il suo personaggio tramuta, a parole, in farsa la macchina distruttiva nazista, dietro la quale sembra non vederci persone ma automi sciocchi da deridere, si tratta di un giudizio della storia in netto contrasto con quanto sostenuto invece da Hanna Arend che ne “La banalità del Male“, afferma che il lato oscuro dell’animo umano è in agguato in tutti noi, pronto ad emergere quando meno ce lo aspettiamo e che ci consente di compiere le azioni più crudeli ed irrazionali senza porci alcun problema morale, anzi, trovando anche giustificazioni di facciata che ci possano assolvere se scoperti.

Benigni, pensando d’aver decretato la sconfitta dell’antisemitismo con l’arma della fantasia, mette in atto una strategia di opposizione ambigua e di comodo per la coscienza collettiva che è ben distante da quello che furono la sollevazione del ghetto di Varsavia o il tentativo di evasione avvenuto all’interno del campo di sterminio di Sobibor, poco importa se ambedue gli avvenimenti non ebbero un buon esito, ciò che conta è che in essi veniva resa palese la non disponibilità di andare incontro all’annientamento senza opporre un atto di ribellione e resistenza.

Il messaggio di Benigni non era, quindi, un “Mai più vi permetteremo di agire impunemente contro chiunque“, ma, piuttosto, “La fantasia è più forte della follia“, ..belle parole, peccato però che nel frattempo la macchina distruttrice proseguisse e prosegue il suo corso tutt’ora.  In un certo senso si potrebbe sostenere che il film “La vita è bella” nasconda in sottotraccia, forse inconsapevolmente (diamola per buona), un messaggio fondamentalmente antisemita, in cui viene portato avanti lo stereotipo dell’ebreo che piace tanto anche oggi, quello che lo connota come una vittima inerme che subisce in silenzio qualsiasi avversità, un essere umano da guardare con ipocrita commiserazione e accondiscendenza, ma guai se osa ribellarsi e rispondere colpo su colpo, in tal caso non solo cessa di essere gradito, ma, per colmo dell’ironia, rischia anche di essere accumunato a chi è stato il suo carnefice, un gioco al massacro da cui si salvano solo coloro che, in modo ipocrita e sotto forme diverse, negano, di fatto, la propria ebraicità e si prostrano come zerbini ai piedi degli ignoranti e falsi amanti degli ebrei.

 

Di ben altro spessore è il film “Train de vie” di Radu Mihăileanu. Per chi non lo sapesse, non solo è stato ideato e girato prima de “La vita è bella“, ma il ruolo del “matto” era stato proposto allo stesso Benigni che, per motivi ignoti, rifiutò e poi, a breve scadenza, pensò bene di copiarne malamente le tematiche di fondo. “Train de vie“, è attraversato anche esso da una grammatica narrativa fondata sull’assurdo e l’ironia, ma con altro spessore, si richiama alla tradizione “yddisch“, dove la fantasia e il paradosso non sono un rifugio in cui rintanarsi a leccarsi le ferite, illudendosi di aver vinto, ma forze creative, dettata sì dalla disperazione, capaci, forse, di far mutare il corso della storia.

Melog

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13 Comments

  • sono d'accordo con il resoconto storico di Melog. credo anch'io che l'antisemitismo sia una strategia. Sono meno d'accordo sul giudizio sul film, nel senso artistico almeno… è solo un altro punto di vista, a livello di sceneggiatura. Poi certo se lo confrontiamo con Train de vie, quello anche è un capolavoro..

  • vabbè dai non esageriamo. il film è bello, a livello artistico, anche l'idea in fondo… più che altro perché il centro è l'infanzia e la sua tutela.
    se vogliamo invece darne un giudizio storico, impregnato dell'importanza della tragedia di cui si parla, il punto di vista di Melog può essere condivisibile…

  • il discorso è questo: "..pensando d’aver decretato la sconfitta dell’antisemitismo con l’arma della fantasia, mette in atto una strategia di opposizione ambigua e di comodo per la coscienza collettiva che è ben distante da quello che furono la sollevazione del ghetto di Varsavia o il tentativo di evasione avvenuto all’interno del campo di sterminio di Sobibor, poco importa se ambedue gli avvenimenti non ebbero un buon esito, ciò che conta è che in essi veniva resa palese la non disponibilità di andare incontro all’annientamento…."
    ..c'è questo pericolo, potrebbe in effetti esserci!

  • posso essere d'accordo, ma non sono sicuro che La Vita è Bella trasferisca l'idea della solita vittima inerme, che subisce qualsiasi avversità, il solito ebreo da guardare con ipocrita commiserazione… in fondo, il protagonista da vittima si trasforma in paladino dell'amore, salva il figlio da un'esperienza orrenda, non avrebbe potuto fare altro e così bene!

  • e vabbè, con gli ebrei qualsiasi cosa si fa si sbaglia. Ognuno ha da dire la sua… non è mica facile ragazzi! 🙂
    comqe, interessante articolo!

  • fosse stata solo l'ultima chiave di lettura sarei perfettamente d'accordo con Melog. Poi però nel mondo del cinema c'è anche Bastardi Senza Gloria ad esempio, a dare ai nazisti ciò che meritano… e quindi, possono essere punti di vista diversi.

  • il problema è che La Vita è Bella c'ha vinto un Oscar… è questo impatto mondiale che è più pregnante e di conseguenza più pericoloso, nel senso del discorso di Melog.

  • sebbene io penso che un film sia un'opera d'arte e quindi il punto di vista creativo di un artista, in questo caso Benigni ha voluto semplicemente rappresentare una sua visione poetica di una tragedia, lasciando il messaggio che si… la fantasia, unica "arma" dei bambini, poteva sconfiggere quella distruttiva del nazismo (dunque una lettura personale creata per una storia innanzitutto fatta da persone… e non per forza da ebrei massacrati..), sebbene pensi questo, è anche vero che ho sempre creduto che dietro a Beningi ci sia un giro di persone losche che lo proteggono e lo spingono, talmente tanto da consegnargli un oscar con un film che, come ho già detto, può essere difeso dal punto di vista artistico… ma è chiaro che non può esserlo dal punto di vista preventivo dell'etica-sociale, giacché non ha portato nulla di nuovo anzi, ha solo rafforzato, come ben scrive Melog, una serie di stereotopi sugli ebrei.

  • Innanzitutto, complimenti Melog per l'articolo e le notizie storiche riportate, concordo con tutto. In difesa di Benigni e non parlo dell'uomo, ma dell'artista, a mio modesto parere il film è stato girato anche per consentire ai bambini di comprendere la prigionia, e di portare speranza nei cuori infantili.. E' pur vero che se la realtà non viene messa a nudo, le nuove generazioni dimenticherebbero l'orrore passato, e avanzerebbero nell'illusione che il mostro si può sconfiggere deridendolo.. Si, è una questione intricata e che sicuramente c'è qualcuno che vuole mantenerla tale.. Noi siamo qui a testimoniare.

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