Televisione e cinema: i due volti della fiction in divisa

Tv e Cinema: due opposte visioni della "Divisa"

Tv e Cinema: due opposte visioni dell’Ordine costituito; uno rassicurante, inoculato forse a dovere dalle istituzioni.., l’altro violento tanto quanto la realtà. Così, l’audience segue i suoi trend… così come la cultura sociale degli italiani soggiogata dalle regole dello spettacolo.

 

 

«Mani in alto!» è un’esclamazione che nella vita reale farebbe gelare il sangue a chiunque, ma nell’universo televisivo è il segnale rassicurante che sono arrivati i buoni e che presto puniranno i cattivi. Bisogna ammetterlo: i (super)eroi della fiction televisiva italiana non hanno costume o mantello, né tanto meno i superpoteri, ma la divisa.

Nell’ultimo ventennio, personaggi come il Commissario Cattani de “La Piovra” sono diventati delle icone nella storia della tv italiana, incarnando modelli positivi per competenza, dedizione al lavoro e spirito di giustizia. Insomma se gli States hanno Capitan America, noi abbiamo il Commissario Montalbano e scusate se è poco.

Cattani, addirittura, combatteva (e moriva, appunto, da eroe) contro quello che allora era il Male dell’Italia: la Mafia. Col tempo gli sono succeduti altri “agenti”, poliziotti o carabinieri, che, caso dopo caso, sono diventati numi tutelari del pubblico televisivo italiano. La forza di questi personaggi, che ne ha garantito il successo e l’affetto presso gli spettatori, non risiede solamente nel loro essere bravi agenti, ma, soprattutto nel loro essere brava gente, persone di cui ci si può fidare come uomini, prima ancora che come agenti.

Niente “maledettismi”, niente grilletto facile alla Ispettore Callaghan e se infrangono il famigerato “protocollo” lo fanno sempre per una buona causa condivisibile dagli spettatori. Sono il lato chiaro della Forza, il bianco che combatte il nero, senza mai sfumare nel grigio. Non sono solo l’agente, sono il padre o l’amico che tutti vorrebbero avere. In una parola, sono rassicuranti..

Ed è proprio questo il motivo per cui la Divisa rappresenta la colonna portante della produzione televisiva nostrana: la fiction italiana trova la sua ragion d’essere nell’ispirare “sicurezza” nello spettatore: la sicurezza che la nostra protezione è affidata a uomini capaci ed onesti, come il Maresciallo Rocca, in gamba quanto i loro colleghi americani, come dimostrano Riccardo Venturi e il suo team dei R.I.S. Il poliziotto italiano più politically uncorrect in tv è l’Ispettore Coliandro.

 

Potremmo dire che questo tipo di fiction ha un ruolo istituzionale: attraverso la finzione si cerca di delineare la realtà, accrescendo la fiducia nelle Forze dell’Ordine. Probabilmente è per questa ragione che il filonelegale” del genere crime italiano non ha avuto lo stesso successo: gli avvocati non infondono la stessa sicurezza di un commissario.

 

Se la televisione italiana si preoccupa di salvaguardare l’ordine, il grande schermo ricerca la rottura. Una rottura dolorosa perché affonda le sue radici nella realtà. Traendo spunto dalle vicende di cronaca degli ultimi 10 anni, la fiction cinematografica recente mostra una figura di tutore dell’ordine ben diversa da quella che siamo abituati a vedere in tv: lo spettatore rimane come il bambino al quale viene rivelato che Babbo Natale non esiste, con la differenza che qui non solo il Maresciallo Rocca non esiste, ma il suo corrispettivo cinematografico in un uniforme è un fascista con la mano pesante. Al cinema gli esponenti delle Forze dell’Ordine appaiono ben poco gioviali e rassicuranti.

Le immagini di “ACAB” e “Diaz” sono manganellate allo stomaco e agli occhi. A proposito del film di Stefano Sollima (regista di “Romanzo Criminale-La Serie“), “ACAB” ci mostra personaggi assai differenti da quelli riproposti nelle fiction poliziesche televisive: altro che flirt tra colleghi come in “Carabinieri“, altro che marescialli oscurati in abilità deduttiva da sacerdoti di paese, altro che Max Giusti ed Enrico Silvestrin di “Distretto di Polizia“. Non ci sono eroi, non ci sono operazioni coraggiose, né sketch per sdrammatizzare la tensione. C’è solo il furore della violenza, una violenza sconosciuta e aborrita dagli eroi in uniforme del piccolo schermo, i quali, piuttosto che abusare del braccio armato della legge, preferiscono adoperare il proprio intuito, se non addirittura lo strumento più  “non violento” di tutti: la parola.

I celerini di ACAB, dal canto loro, farebbero sembrare un duro come Vic Mackey la controfigura capelluta del Maresciallo Cecchini. A differenza della squadra d’assalto di “The Shield“, che di metodi poco ortodossi se ne intende, qui non si tratta di ottenere un bottino “sporco” o di scongiurare una guerra tra bande, ma di rabbia che diventa odio, che a sua volta diventa violenza cieca e pronta ad esplodere: contro i manifestanti, contro i delinquenti, contro la propria ex moglie. Come i loro colleghi del piccolo schermo, anche Favino ed i suoi compagni sono legati da un fortissimo spirito di corpo, un legame, però, più forte della concezione di giusto o sbagliato, che rappresenta, invece, il principio fondamentale di tutti i protagonisti italiani in divisa della televisione. Gli episodi violenti di cronaca recente fanno da cornice alle (re)azioni dei celerini, testimoniando come un mondo di violenza non può che generare i figli dell’odio.

 

Anche in televisione, comunque, il vento potrebbe cambiare, come testimonia il successo di “Romanzo Criminale“: il Libanese, il Freddo, il Dandi rappresentano l’eterna attrazione dell’oscurità, del crimine, del vivere fuori dall’ordine. Sono il torto, ma quel genere di torto che ci piace avere, soprattutto agli spettatori più giovani.

Dopo i polizieschi all’italiana degli anni Settanta ed i rassicuranti tutori dell’ordine degli anni ‘90-2000, l’Italia scopre il fascino maledetto della gangster fiction nostrana, dove si ammirano i cattivi e il crimine paga quando si tratta di audience.

Giovanni Gaeta

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