Una vita per il cinema

Ovvero di eroismo in quest'età desolata

Mi sovviene alla mente, nel procedere indistinto dei giorni, un momento preciso di un giorno qualsiasi in cui, da studente passivo e impermeabile agli insegnamenti, scaldavo la sedia di scuola osservando il grande pioppo del cortile fiorire fuori dalla finestra.
In quel periodo riscaldavo al microonde lasagne surgelate – che mia madre comprava in scala industriale stuzzicata dalle succulente offerte 7×3 – sprecavo i pomeriggi davanti alla televisione, amavo segretamente la mia vicina di casa Margherita e a lei ero solito dedicare le mie ossessive masturbazioni, quando seduto sul cesso mi spremevo l’uccello fino ad arrossarlo e schizzavo stelle filanti sulle piastrelle in ceramica del bagno dei miei genitori.
Nel momento in cui mi dedicavo alla contemplazione delle prime gemme del disgelo, la mia attenzione venne catturata dalla spiegazione della professoressa, una vecchia giumenta rimasta vedova in gioventù la cui unica gioia constava in uno stormo arrogante di studenti passerotti che sprezzavano con ingratitudine i suoi insegnamenti: parlava del grande Poeta Vate Gabriele d’Annunzio, il quale, a detta di lei, spese tutta la propria esistenza al fine di renderla un’opera d’arte. Così lei stessa, facendo propri gli insegnamenti del D’Annunzio, ci ammoniva, affinché non finissimo come lei, condannata per l’eternità a ingrassare dietro a una cattedra: «Figlioli, fate della vostra vita un’opera d’arte».

Diversi anni più tardi, in una fredda e luminosa giornata di fine maggio, si spegneva a Roma il regista Claudio Caligari, il quale, come riportarono nei giorni successivi tutti i quotidiani, nonostante un’esigua produzione, spese “una vita per il cinema”.
Caligari, che come aveva dichiarato lui stesso si era dato al cinema non entrando per un soffio nelle Brigate Rosse, era morto subito dopo aver ultimato il suo terzo film, terzo nell’arco di quarant’anni di carriera.
Considerato fino alla morte dalla stragrande maggioranza della critica un mediocre, un dilettante, dopo aver esalato l’ultimo respiro dietro alla macchina da presa veniva consegnato alla storia come un vincente, un grande virtuoso della pellicola.
Uno che, come il D’Annunzio, aveva fatto della propria vita un’opera d’arte.

In occasione della sua scomparsa, il cinema del mio quartiere proponeva una rassegna pomeridiana dei suoi tre film, a cui aderimmo soltanto io e una coppia di anziani che si alzò a metà della prima proiezione.
In quel periodo non avevo un soldo. La mia famiglia non aveva un soldo. Lo Stato non aveva un soldo. Il mondo sembrava gravitasse rapidamente attorno alla sua fine, come fanno i moscerini che svolazzano bruciacchiati intorno alle lampade.
Uscito dal cinema, presi la decisione che anche io, nella grande impotenza di quel periodo, così parco di felicitazioni, sia a livello storico sia a titolo personale, avrei dato tutta la vita per uno scopo, come il grande Claudio Caligari, che sprezzato da tutti in vita era poi morto nella gloria.
Anche io, da lì in avanti, avrei dato la mia vita per una causa, come il grandissimo Claudio Caligari. Una vita per il cinema.

Il punto dolente della mia decisione era che non avevo alcun talento particolare, alcuna vocazione specifica, conoscenza o capacità.
La mia carriera scolastica era stata pessima, quella lavorativa inesistente.
Soggiaceva alla mia inettitudine una sorta di indolenza cosmica, un grande imbuto di passività nel quale il presente sembrava affogare.
Ciononostante, l’epistassi contemporanea in cui viveva l’umanità mi ispirò nella scelta. Esisteva un’altra via, che imboccavano quei cosiddetti audaci che la fortuna dovrebbe aiutare. Mi convinsi a intraprendere una strada tortuosa per la gloria, ispirato da quei miei coetanei stranieri di cui venivano riportate le gesta in ogni telegiornale della sera. Mi sarei dato alla Guerra Santa. Sarei morto in Jihad.

Non avevo persone amiche a cui confidare la mia decisione, così decisi di uscire a fare due passi e riflettere da solo. Aveva piovuto un poco, le strade erano ancora umide.
D’un tratto sentii picchiettarmi sulla spalla. C’era un mio vecchio compagno di scuola delle superiori, che non vedevo da almeno un decennio, un ragazzone alto come un fuso e così magro che i vestiti sembravano tenuti in piedi dal fil di ferro, che mi salutò con un gaudio tale da mettermi voglia di ammazzarmi.
«Amico mio! Proruppe in un abbraccio. Che racconti? Non ci si vede da una vita, forse di più!».
In certe situazioni non vi è maggiore assenza di intimità che con persone che si conoscono da tanto tempo. Per questo esitai a rispondere.
La sua autentica felicitazione e la debole costituzione fisica, che ispiravano tutto in lui fuorché carattere predatorio, mi spinsero tuttavia a chiedergli consiglio.
Gli parlai della mia vita e di Caligari, di questo momento storico sanguinante, del vuoto assoluto in cui gravitava il mondo.
Rimase naturalmente spiazzato, ma non sembrava colpito come mi sarei potuto immaginare, pareva sorpreso più che dalla decisione in sé, dal fatto che fossi io ad averla presa.
«Vuoi darti al Jihad?! Ma se non sei nemmeno musulmano!».
«Ma non c’entra la religione…».
«Diamine, certo che c’entra!».
«È una questione storica. Bisogna saper leggere il presente. È ciò che occorre di questi tempi per fare della propria vita un’opera d’arte».
«Amico mio, altro che Guerra Santa, tu avresti bisogno di una passera!».
Esitò un poco, poi dopo un mezzo ghigno aggiunse: «Senti, tieni questo numero… chiama dalle sette di sera in poi…».

Diceva di conoscere una ragazza che poteva fare al caso mio, che la sera frequentava un bar dalle parti di piazza Lugano.
«Tu va, penserà lei a tutto», asseriva il mio vecchio amico. «Ogni problema sparirà, con lei».
Dedussi che doveva avere qualche contatto che mi sarebbe potuto risultare utile, così quella stessa sera mi presentai al pub.
Appoggiata al bancone vidi una ragazza dai tratti orientali, somigliante in modo impressionante a Lucy Liou, con una grande rosa blu tatuata sulla spalla.
Sorseggiava senza fretta un Martini bianco, alzando ogni tanto lo sguardo verso il barista o gli altri clienti del locale.
Dal momento che era l’unica presenza femminile in tutto il bar, mi avvicinai.
«Ciao, come posso aiutarti?», miagolò.
«Un vecchio amico mi ha detto che potevo chiedere a te. Desidero morire in Jihad».
Mi squadrò da capo a piedi. Mi pareva l’avessi sorpresa. Ridacchiò.
«Scusami, e che cosa ti avrebbe detto questo vecchio amico?».
«Mi ha detto che avresti potuto aiutarmi. Diceva che saresti stata perfetta per il mio caso».
Sorrise a metà, poi si fece d’un tratto seria e si avvicinò a me.
«Dunque non vuoi scopare?», bisbigliò.
«Scopare? Diavolo, no!».
«Guarda che sono brava».
«Non lo metto in dubbio. Ma ero alla ricerca di altro».
«Ho capito, ho capito, tuonò». Ora le labbra erano arcuate in un semicerchio malizioso. «Sei uno a cui piacciono le cose strane… bè, non c’è problema. Cambia solo un pochetto la tariffa, tutto qui».
«Credimi, non voglio scopare. Cercavo qualcuno che mi potesse mettere sulla strada giusta, che mi potesse fornire dei contatti con Boko Haram, con lo Stato Islamico, o con Aqim o Al-Qa’ida».
«Temo allora che tu e il tuo amico abbiate avuto un fraintendimento».
Stavolta Lucy Liou rise di gusto, e a lungo anche.
«Non so cosa tu abbia capito, dico sinceramente… però se vuoi conosco un giornalista…».

Diceva di conoscere un giornalista che poteva fare al caso mio.
Mi diede il suo biglietto da visita, così la mattina seguente gli telefonai.
Quando gli spiegai il motivo della chiamata, quasi esultò, e mi diede appuntamento un’ora dopo. Ci incontrammo in un caffè del centro.
Appena entrato vidi un ometto alto poco più di un metro e mezzo, con dei radi capelli neri tinti così male che sembrava li avesse colorati col pennarello.
«Tu devi essere il nostro jihadista! Esclamò sbracciandosi».
«Sì, e immagino che lei sia il giornalista che ho contattato».
«Esattamente. Ti ha dato il mio numero la nostra amica comune, vero? Che femmina!», disse strizzando l’occhio dopo una debole risatina.
«Ora, veniamo a noi», aggiunse, e accese il registratore. «Quindi desideri morire in Jihad, giusto?».
«Esattamente».
«Fantastico, fantastico, meraviglioso. Che scoop eccezionale!».
«Scoop? Senta, io starei cercando dei contatti con fazioni armate fondamentaliste. Credevo che lei mi potesse aiutare».
«Ragazzo mio, ma certo! Ci aiuteremo a vicenda! Che ne dici, organizzo un servizio per domani? Anzi, per questo pomeriggio stesso!».
«Un servizio?».
«Un servizio televisivo, certamente! Faremo delle riprese della sua casa, la intervisteremo, incontreremo i suoi genitori e i suoi amici d’infanzia! Ci sarà ogni importante emittente, telecamere dappertutto, trasmetteremo la puntata in streaming!».
«E cosa c’entra tutto questo col mio proposito?».
«Ragazzo mio, come sei ingenuo! Come pensi di avvicinare i terroristi senza un tweet, senza una condivisione su Facebook, senza un’edizione speciale del telegiornale del pomeriggio?».

Poco più tardi tornai a casa. Avevo appetito, cosi misi a bollire delle patate. Stavo tagliando della cipolla a cubetti quando sentì battere furiosamente la porta.
«Polizia! Apri la porta, figlio di puttana!».
Non feci a tempo a girare la chiave nella serratura che quelli avevano già buttato giù la porta. Una trentina di agenti dell’anti-terrorismo, con passamontagna e mitra alla mano, entrarono in salotto. In un istante mi immobilizzarono a terra ammanettato. Un poliziotto mi salì sulla schiena con le ginocchia.
«Non ho fatto niente!», urlai.
«Cosa stavi preparando in cucina, pezzo di merda? È una bomba?».
«Stavo cucinando!».
Si fece largo fra gli agenti quello che dedussi potesse essere il capo.
«Stia fermo! È un’operazione dell’AISI, Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna! Lei è accusato di associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico! Ha il diritto di rimanere in silenzio!».
Era un uomo di mezza altezza, uno dei pochi a volto scoperto, con dei baffi pronunciati e due occhietti neri piccoli e ravvicinati che lo facevano sembrare un gambero.
«Ci è arrivata una soffiata dei servizi segreti francesi. Dicono che stavi architettando un attentato a Milano».
«Ma non ho fatto niente!».
Il ginocchio del poliziotto mi schiacciava fra le scapole. Emisi un rantolio.
«Perché l’hai fatto, maledetto talebano?».
Accennai un movimento tentando di liberarmi dalla pressione.
Fu allora che spararono.

I colpi non mi fecero così male come vi potreste immaginare.
Fu simile a tante punture d’ape, un bruciore intenso, e poi un rapido fluire via dei sensi.
Sul punto di perdere conoscenza, vidi il giornalista farsi spazio con la forza fra gli agenti. Alle sue spalle, lo seguivano due cameraman.
Mi porse il microfono e domandò: «Può dire ai nostri spettatori che cosa l’ha spinta a divenire un terrorista?».
Feci in tempo a dire un’ultima frase.
«L’ho fatto per il cinema».

 

Carlo Massimino

 

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